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La Spagna nell’era dell’instabilità, intervista a Giancarlo Pasquini

La Spagna nell’era dell’instabilità, intervista a Giancarlo Pasquini

K metro 0 – Madrid – Un filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della vita politica spagnola. Senza la pretesa di indicare una via d’uscita, che possono trovare soltanto i suoi protagonisti (partiti, movimenti, cittadinanza attiva). “La Spagna nel suo labirinto”, questo il titolo (che riecheggia un classico di Gabriel Garcia Marquez, “Il generale nel

K metro 0 – Madrid – Un filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della vita politica spagnola. Senza la pretesa di indicare una via d’uscita, che possono trovare soltanto i suoi protagonisti (partiti, movimenti, cittadinanza attiva).

“La Spagna nel suo labirinto”, questo il titolo (che riecheggia un classico di Gabriel Garcia Marquez, “Il generale nel suo labirinto”, dedicato a Simon Bolivar) dell’ultimo libro di Giancarlo Pasquini (AltroMondo editore, Padova, Giugno 2021, 350 pagine) uno dei maggiori esperti italiani di questo paese. Già caporedattore di “Politica Internazionale”, la rivista mensile dell’IPALMO (Istituto per l’Africa l’America Latina e il Medio Oriente) di cui in seguito ha coordinato l’Ufficio Studi, Pasquini ha collaborato con articoli e saggi alle riviste “Sette Giorni”, “Mondoperaio”, “Il Mulino” e al quotidiano “Il Sole 24 ore”. E ha condotto studi di politica comparata fra la transizione alla democrazia in Spagna e in tre paesi dell’America Latina: Argentina, Brasile, Cile.

Intervista di Mario Baccianini

“Dalle elezioni politiche del 20 dicembre 2015 – sostiene Pasquini – la Spagna è entrata nell’era della instabilità e ingovernabilità in cui è tuttora immersa dopo le ultime elezioni del 28 aprile 2019 e la vittoria dei socialisti di Pedro Sánchez. Che però non ha voluto fare un governo di coalizione con Podemos. Ma ha preferito tornare alle urne (10 novembre)”, in cui i due partiti di sinistra hanno perso voti e seggi mentre la destra estrema di VOX si è piazzata come terzo partito a pochi punti dalla destra moderata di Pablo Casado. Anche in Spagna le divisioni e i personalismi nella sinistra hanno rafforzato la destra che si è ricompattata, costringendo Sánchez e Iglesias a mettersi d’accordo e formare il primo governo di coalizione nei 40 anni di democrazia, che si regge sull’astensione degli indipendentisti moderati catalani e baschi.

Il governo “più a sinistra d’Europa” ha gestito dal gennaio 2020 tutta la fase della pandemia con risultati alterni, ma grazie ad essa è riuscito a rimanere a galla…

… e ora può sperare di arrivare a fine legislatura grazie al buon andamento della campagna vaccinale e alla forte spinta della ripresa economica.

E questo dopo quattro elezioni politiche in 4 anni. La Spagna è davvero un caso unico in Europa…

“Una situazione inedita che non si era mai presentata nei primi 35 anni di democrazia che evoca i fantasmi di stagioni ormai lontane e scenari più prossimi, di cui quello ‘italiano’ è il più temuto”.

Non era mai successo che il partito vincitore delle elezioni non ottenesse né la maggioranza assoluta, né quella relativa come è avvenuto, prima al Partito Popolare di Rajoy, nel 2015 e poi al PSOE, il Partito Socialista, nel 2019 e quindi non avessero i voti per formare un governo. Che cosa è avvenuto?

“Le elezioni del 2015 hanno sancito, dopo una crisi economica devastante durata sette anni, la fine di un ciclo politico basato sul ‘bipartitismo’ e l’alternanza fra socialisti e popolari.

Tutto l‘edificio costituzionale era stato costruito in funzione della stabilità dei governi e con una legge elettorale calibrata sull’esigenza della governabilità piuttosto che su quella della rappresentatività. Le elezioni del 20 dicembre 2015, invece, hanno consegnato un sistema quadripolare con 4 partiti divisi su tutto (il Partito Popolare di Rajoy, il Psoe di Pedro Sánchez, Podemos di Pablo Iglesias e Ciudadanos, il Partito della Cittadinanza, collocato su posizioni centriste, che ora guarda a destra). Ma nessuno di questi ha la maggioranza per governare”.

I partiti spagnoli sembrano allergici alle intese e alle coalizioni.

“‘Non è un paese per i patti’” ha scritto infatti EL Pais proprio riferendosi all’idiosincrasia della classe politica a stringere alleanze e accettare compromessi. Dopo quattro cicli elettorali si è tornati al punto di partenza. La ‘vecchia politica’, benché ridimensionata non è stata sconfitta, e la ‘nuova politica’ di cui Podemos è stato il simbolo non è riuscita a prevalere e già mostra segni di divisione e logoramento. Tutto questo avviene mentre l’unità territoriale e politica è messa in discussione con il tentativo di secessione della Catalogna dell’autunno 2017. Un tentativo – definito “golpe postmoderno”- che ha aperto la più grave crisi costituzionale della storia della democrazia spagnola”.

Una crisi di cui l’ex premier conservatore Mariano Rajoy, in carica dal 2011 al giugno 2018 porta pesanti responsabilità. I socialisti spagnoli sono sempre riusciti, negli ultimi decenni, a preservare l’unità del paese, fortemente scossa dalla miope intransigenza della destra spagnola, per la quale l’anticatalanismo è sempre stato invece un elemento catalizzatore, da Primo de Rivera a Franco e ai nipotini del post franchismo attuale.

E’ così. La Catalogna si sente una Nazione con una lingua e una cultura proprie e una storia di lotte e rivendicazioni per uno Stato federale e ultimamente per l’indipendenza. Ma tutti i suoi tentativi sono andati frustrati per la forte e a volte brutale opposizione delle forze di centro-destra e dell’establishment politico ed economico. In oltre un secolo di lotte la Catalogna non è riuscita a trasformarsi in Stato. L’ultimo tentativo dell’autunno del 2017, guidato dal presidente della Generalitat Carles Puigdemont, si è concluso con il commissariamento degli organi di autogoverno, l’arresto e la condanna dei leader indipendentisti e la fuga all’estero di Puigdemont e altri ministri. Facendosi forte dei meccanismi costituzionali che blindano l’unità e l’integrità territoriale della Spagna, l’allora capo del governo Rajoy ha fatto un uso spregiudicato della “via giudiziaria” per fermare le velleità secessioniste dei partiti “catalanisti” che – bisogna sottolinearlo – nelle elezioni regionali hanno ottenuto la maggioranza dei seggi ma non hanno mai raggiunto il 50% dei voti. La società catalana è spaccata in due sul tema dell’indipendenza. Quando è andato al governo il leader socialista Sánchez si è proposto la riconciliazione fra la Catalogna e il resto della Spagna e fra i catalani stessi. Per farlo ha cambiato radicalmente l’approccio, sostituendo il “dialogo” all’’incomunicabilità, la disponibilità e l’ascolto delle istanze “ragionevoli” dei catalani ai diktat del Tribunale costituzionale. E come prova di voler fare sul serio ha concesso l’indulto ai 10 esponenti indipendentisti condannati a lunghe pene detentive, sfidando la reazione rabbiosa della destra. Sanchéz non può accettare un referendum per l’indipendenza nella sola Catalogna perché va contro la Costituzione, ma può fare un passo ulteriore verso una riforma federale dello Stato.

Torniamo alle cause dell’instabilità spagnola…

Partendo da questa premessa iniziale, ho cercato di indagare sulle cause che hanno portato a questa situazione seguendo un cammino a ritroso. A cominciare dalla crisi economica esplosa in Spagna con maggior virulenza a causa della bolla immobiliare e finanziaria che ha fatto schizzare la disoccupazione al 26%, l’indebitamento privato al 167% quello pubblico a quasi il 100% rispetto al PIL e ha causato sofferenze superiori rispetto ad altri paesi europei. Diseguaglianze e nuove povertà che stridono rispetto alla

disinvoltura con cui le élites politiche, economiche e finanziarie hanno partecipato al “banchetto” della corruzione. Anche la reazione della società civile è stata in Spagna più forte che altrove. Con l’esplosione, nel 2011, del movimento degli indignados da cui è nato Podemos che insieme a Ciudadanos, sorto in Catalogna come reazione agli eccessi del nazionalismo identitario, costituiscono i nuovi attori della scena politica. A cui si è aggiunto di recente VOX, partito nazional-populista e xenofobo, inesistente fino al 2018, che omologa la Spagna al resto dell’Europa”.

La tua breve descrizione della loro genesi, delle loro istanze e dei loro programmi mette in luce la loro contrapposizione alla “vecchia politica”.

Sì, certo, essendo sorti nella seconda decade di questo secolo si contrappongono ai due partiti che hanno governato nei precedenti 35 anni e alle loro malefatte, la corruzione, gli scandali, ecc. Tuttavia, Podemos e Ciudadanos sono diversi in tutto, antitetici e incapaci di trovare un terreno comune fra loro. Con la furia iconoclastica che li caratterizza, i dirigenti di Podemos hanno rimesso in discussione tutto quello che è avvenuto prima di loro a cominciare dalla “transizione alla democrazia” realizzata negli anni fra il 1976 e 1982 dal re Juan Carlos e Adolfo Suárez, finora considerata da storici e analisti un “capolavoro politico”, o comunque una esperienza di successo che ha permesso il passaggio dalla dittatura alla democrazia senza traumi e spargimento di sangue. Ora questo percorso è ritenuto, pensate un po’, l’origine di tutti i mali …in quanto viene considerata una grande “rimozione” del passato franchista senza una vera rottura. Sotto accusa è il sistema che i critici chiamano il “regime del 1978”, cioè la Costituzione, la legge elettorale fatta per blindare il bipartitismo, la legge sui partiti e anche l’istituzione monarchica, che per la prima volta è stata toccata dagli scandali”.

Sotto accusa è anche lo Stato delle autonomie.

Lo Stato delle autonomie è stato la risposta data dai costituenti allo spinoso tema della diversità culturale e territoriale dei popoli di Spagna. Una risposta che oltre a rivelarsi costosa e fonte di sprechi e corruzione, non ha risolto il problema storico della convivenza in un unico Stato fra nazionalità che si ritengono diverse. La Costituzione detta le linee generali del sistema distinguendo fra “nazionalità storiche” che avevano ottenuto uno statuto di autonomia durante la II Repubblica, dotandole di maggiori poteri e le altre (equivalenti alle Regioni italiane) con competenze minori. Ma nell’attuazione pratica, demandata a una legge ordinaria, le Comunità con poteri ridotti hanno preteso il cafè para todos, cioè lo stesso livello di competenze di quelle “storiche”, scatenando una insana rincorsa ad ottenere sempre di più. Le Comunità storiche, vedendosi scavalcate hanno puntato all’indipendenza. Dopo il caso del Paese Basco che sembra attenuato dopo la sconfitta politica e militare dell’ETA, è esploso negli ultimi anni il più insidioso caso della Catalogna., di cui abbiamo parlato sopra.

Il pasticcio delle autonomie ha avuto una manifestazione eclatante durante la pandemia quando una Comunità non indipendentista come quella di Madrid, governata da una giovane e ambiziosa esponente del PP, Isabel Diaz Ayuso ha sfidato apertamente il governo centrale, disattendendo le misure restrittive e il lockdown. E a maggio ha stravinto le elezioni regionali, infliggendo una cocente umiliazione a Pablo Iglesias, dimessosi da vicepresidente del governo per cercare di fermarla.

Nella tua trattazione è presente anche un confronto con l’Italia

“Si ho cercato di fare un confronto su diverse questioni a cominciare dalla crisi economica e dal modo in cui la Spagna ne è uscita e l’Italia no, fino al tema della stabilità dei governi, delle “autonomie differenziate” e in ultimo di come è stata gestita la pandemia. L’Italia è la terza economia dell’Unione europea e la Spagna la quarta in termini di Prodotto interno lordo, ma l’economia spagnola è stata fino al 2019 più dinamica e reattiva di quella italiana. Dal 2015 al 2019 il Pil della Spagna è cresciuto cumulativamente di 14 punti quello dell’Italia solo di 5 rispetto ai 9 puti che entrambi avevano perso durante la recessione 2008-2013. La Spagna si è dimostrata più competitiva e più attrattiva per gli investimenti esteri perché nonostante le vicende di questi ultimi anni appare un paese più stabile e affidabile, con i conti pubblici migliori rispetto all’Italia, con meno tasse e burocrazia. Anche oggi i due paesi – che sono stati i più danneggiati dalla pandemia e per questo riceveranno i maggiori fondi europei del Recovery Plan – mostrano un differenziale di crescita di 1 punto. Mentre per l’anno in corso le previsioni per l’Italia parlano di un aumento del Pil del 5,3%, la Spagna si viaggia intorno al 6,3%. Entrambi i paesi hanno problemi strutturali, punti di forza e di debolezza, ma a mio parere la Spagna appare meglio attrezzata per affrontare le sfide del futuro.

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