K metro 0 – Gaza – A Gaza scrivere una lettera postuma è diventato, per molti giornalisti, quasi un rito amaro. Una sorta di cronaca anticipata della propria morte. L’ultima è quella di Mariam Abu Dagga, 33 anni, reporter e fotografa freelance che collaborava con diversi media internazionali, tra cui Associated Press. È stata uccisa
K metro 0 – Gaza – A Gaza scrivere una lettera postuma è diventato, per molti giornalisti, quasi un rito amaro. Una sorta di cronaca anticipata della propria morte. L’ultima è quella di Mariam Abu Dagga, 33 anni, reporter e fotografa freelance che collaborava con diversi media internazionali, tra cui Associated Press. È stata uccisa il 25 agosto in un doppio bombardamento israeliano sull’ospedale Nasser, nel sud della Striscia.
“Diceva sempre che, come giornalista, doveva stare sul campo”, racconta a RTVE Noticias la sorella maggiore Rana. Nella sua lettera d’addio, Mariam aveva chiesto ai familiari e ai colleghi di non piangere al funerale. E al figlio Ghaith, 13 anni, che vive negli Emirati Arabi con il padre, aveva lasciato un messaggio struggente: “Rendimi orgogliosa… brilla”. Gli ha anche chiesto, un giorno, di chiamare Mariam la figlia che avrà.
Aveva scelto la strada del giornalismo da giovanissima, a 17 anni. Poi il matrimonio, la maternità e una decisione durissima: mandare via suo figlio per salvarlo, restando invece a Gaza per fare il suo lavoro. Non voleva lasciare la Striscia, voleva testimoniare. Così ha raccontato gli sfollati in fuga, i funerali, le file disperate per un pacco di aiuti, i corpi dei bambini negli ospedali. Uno dei suoi ultimi servizi era stato sulla carestia, realizzato con il collega Lee Kheat.
“Era una convinta sostenitrice della parola e della verità”, dice Rana. “Ha sofferto molto, ha vissuto sotto pressione continua, ha rischiato la vita tante volte. Ma non si è mai fermata”. Negli ultimi due anni passava pochissimo tempo con la famiglia, schiacciata dal ritmo della guerra. Scriveva in arabo e in inglese, fotografava e filmava: voleva che il mondo arabo e l’Occidente vedessero con i propri occhi.
La sua base era proprio l’ospedale Nasser, a circa 20 km dal confine egiziano. Lì è morta con altre 20 persone, tra cui quattro colleghi. Secondo testimoni e organizzazioni, l’esercito israeliano ha colpito una scala da cui i giornalisti osservavano Khan Yunis. Quel giorno Israele ha ucciso anche altri reporter: Hossam Al Masri (Reuters), Mohamed Salama (Al Jazeera), Ahmed Abu Aziz (Quds Feed), Moaz Abu Taha (NBC) e Hasan Douhan, colpito a sud di Gaza.
Per le famiglie il dolore si intreccia alla rabbia. Adil Abu Taha, fratello di Moaz, ricorda di aver tentato di dissuaderlo dal fare il giornalista: “Non volevo che si esponesse all’orrore. Ma non mi ha ascoltato, ed è riuscito a fare un lavoro enorme”. Anche lui è reporter e dice che non smetterà: “La morte di mio fratello mi spinge solo ad andare avanti. Chiedo alla comunità internazionale di fermare questi attacchi contro la stampa. Ci stanno uccidendo perché non vogliono testimoni”.
La sorella di Hossam Al Masri, Sumaya, non riesce nemmeno a parlare: “La morte è ovunque. Non ho forze, non ho cibo”, dice al telefono prima che la linea cada.
AP e Reuters hanno chiesto a Israele un’indagine immediata. L’esercito ha replicato che l’obiettivo era una “camera di Hamas”. Il segretario generale ONU António Guterres ha condannato “gli omicidi orribili” e ha chiesto un’inchiesta rapida e imparziale. Reporter senza frontiere ha denunciato “un massacro deliberato per spegnere l’informazione”, sollecitando il Consiglio di sicurezza ONU a intervenire sulla base della risoluzione 2222 sulla protezione dei giornalisti in guerra.
Il bilancio è drammatico: a Gaza sono stati uccisi almeno 220 giornalisti, contro i 18 caduti in Ucraina. Numeri che fanno della Striscia uno dei luoghi più letali al mondo per chi prova semplicemente a raccontare.