Gaza, il genocidio, l’informazione e le carenze delle nostre TV

Gaza, il genocidio, l’informazione e le carenze delle nostre TV

K metro 0 – Roma – La mattanza del popolo palestinese è senza dubbio un genocidio ed è risibile il tentativo di edulcorare le parole. È amaro dirlo, ma le cose vanno chiamate con il loro nome. Una componente dell’orribile mattanza è il killeraggio seriale di giornaliste e giornalisti. Chissà qual è il numero reale

K metro 0 – Roma – La mattanza del popolo palestinese è senza dubbio un genocidio ed è risibile il tentativo di edulcorare le parole. È amaro dirlo, ma le cose vanno chiamate con il loro nome. Una componente dell’orribile mattanza è il killeraggio seriale di giornaliste e giornalisti. Chissà qual è il numero reale delle vittime, perché le caratteristiche del lavoro sono molto cambiate e magari il fare cronaca con il cine-occhio di Dziga Vertov (telefoni e smartphone) è più diffuso di quanto si pensi. Da duecento a trecento, secondo i numeri ufficiali, sono i caduti.

A Gaza, però, sono in corso vere e proprie prove tecniche di repressione (dei corpi oltre che delle menti) dell’informazione libera. O ti allinei e fornisci le notizie con il permesso dell’esercito israeliano, o muori. Pare questa la dialettica in corso. Una sorta di avviso ai naviganti: l’era dorata (per dire) dell’indipendenza e dell’autonomia del quarto (quinto, sesto) potere è un ricordo del passato. Ora il potere nella versione del liberismo sovranista – quello palese e formale, guidato però da quello occulto – non tollera alcun contrafforte o bilanciamento, ivi compresa la magistratura.

Ecco perché non basta indignarsi, come urlò come criterio generale di una lotta non effimera Pietro Ingrao. È doveroso costruire un clima di opinione, unico pericolo davvero temuto da chi conduce le operazioni, forse pure da Israele, che rischia come Stato di trovarsi presto al giudizio della Corte penale internazionale. Come rischiano analoga sorte coloro che sono complici o conniventi.

L’emittente prestigiosa Al Jazeera è sotto uno speciale mirino omicida, in quanto è una inesauribile fonte di notizie dai luoghi dell’eccidio e rappresenta una delle poche alternative al pensiero unico. Come sono eroiche eccezioni i racconti quotidiani di Lucia Goracci e di altri colleghi che si contano sulle dita di una mano. Ha giustamente creato un particolare sconcerto l’uccisione del reporter Anas Al-Sharif, accusato senza alcuna prova di essere legato ad Hamas. Si è parlato molto di lui, per l’inaudita crudeltà che ne ha oltraggiato con la menzogna persino le spoglie. Ci mancherebbe, ma la scintilla ormai si è accesa.

Come hanno sottolineato la Federazione della stampa, il sindacato dei giornalisti della Rai, associazioni – da Articolo21 a Rete NoBavaglio – (lo scorso lunedì si è tenuto un significativo sit in davanti alla direzione del servizio pubblico, con la presenza della Comunità palestinese) e secondo le richieste dell’Ordine di categoria, ora le istituzioni sono obbligate a svegliarsi. Serve un’entità che faccia luce su ciò che avviene in quei territori dove la pietà è morta e che demistifichi le fake dei servizi segreti israeliani. L’accusa di essere vicini ad Hamas è il mantra di comodo per coprire i misfatti.

Tra l’altro, se in ipotesi ci fosse qualche verità in simili accuse, sarebbe a maggior ragione indispensabile aprire le frontiere ad inviate ed inviati, perché niente come la buona informazione è in grado di controllare e rovesciare l’ipotetica cattiva informazione. Insomma, le rappresentanze internazionali del giornalismo alzino la voce e pretendano incolumità e rispetto verso coloro che a rischio della vita interpretano un diritto fondamentale per la trama democratica. Basta. Siamo di fronte ad un buco nero che segnerà la storia del millennio e rimarrà per sempre nell’immaginario, come fu con l’Olocausto. Il destino fa rovesciamenti imprevedibili.

La Rai ha inizialmente dato credito alla versione mainstream sull’uccisione di Anas Al-Sharif e Muhammad Karika. Insieme ai cameramen Ibrahim Zaher e Moamen Aliwa erano l’affiatato gruppo di Al Jazeera annientato dal fuoco israeliano.

Una domanda, infine. Nella strisciata abnorme di talk (un centinaio di ore da mattina a notte navigando tra i canali, pubblici e privati) non c’è mai tra gli ospiti e gli interlocutori un palestinese. Come mai? Il sospetto è che viga per quello sfortunato popolo una linea repressiva coloniale e razzista, una effettiva apartheid. Non si spiega altrimenti una dolosa lacuna, contraria a qualsiasi idea di pluralismo.

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Vincenzo Vita
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