K metro 0 – Tel Aviv – “Israele sta portando avanti un’azione coordinata e deliberata per annientare la società palestinese a Gaza”, scrivono per la prima volta anche due importanti organizzazioni israeliane per i diritti umani. “È genocidio, e non possiamo più far finta di niente”. Lo mettono nero su bianco in due lunghi rapporti
K metro 0 – Tel Aviv – “Israele sta portando avanti un’azione coordinata e deliberata per annientare la società palestinese a Gaza”, scrivono per la prima volta anche due importanti organizzazioni israeliane per i diritti umani. “È genocidio, e non possiamo più far finta di niente”.
Lo mettono nero su bianco in due lunghi rapporti in cui denunciano le azioni dell’esercito israeliano (Idf), nella Striscia di Gaza puntando il dito non solo contro lo Stato ebraico, ma anche contro la comunità internazionale. Le Ong B’Tselem e Physicians for Human Rights – Israel sostengono che quanto accade a Gaza non sia solo una crisi umanitaria, ma un progetto sistematico per distruggere un popolo.
La posizione delle Ong rompe un tabù all’interno di Israele, e arriva mentre anche altre voci nel Paese iniziano a sollevarsi. Cinque rettori universitari hanno chiesto al governo di intervenire per porre fine alla fame nella Striscia. Persino il presidente Usa, Donald Trump, da sempre vicino a Israele, ha ammesso che “a Gaza c’è fame vera, non si può fingere”, mentre Netanyahu continua a negare l’evidenza della sofferenza di massa e della carestia.
I rapporti delle due Ong israeliane, intitolati “Il nostro genocidio” e “Distruzione delle condizioni di vita: un’analisi medica del genocidio a Gaza” – tracciano un quadro documentato delle condizioni nella Striscia. Carestia, bombardamenti mirati, sfollamenti forzati, tagli all’acqua e all’energia elettrica: una spirale che, secondo gli autori, supera il confine tra guerra e crimine contro l’umanità.
“Non avremmo mai immaginato di scrivere una cosa simile – ha dichiarato Yuli Novak, direttrice di B’Tselem – ma la realtà davanti ai nostri occhi ci ha costretto. Non si tratta più solo di violazioni del diritto umanitario. È genocidio.”
Novak, commossa ha detto ai media. “È devastante rendersi conto che si appartiene a una società che sta commettendo un genocidio”. E rispondendo a chi le chiedeva se fosse davvero corretto usare questa parola, ha spiegato: “I nostri leader hanno detto pubblicamente che tutta la popolazione di Gaza è responsabile per l’attacco del 7 ottobre. Hanno usato espressioni come ‘animali umani’, ‘amalek’, nemici eterni. I comandanti ripetono queste frasi, e i soldati le cantano. E poi ci sono i fatti, che parlano chiaro”.
Intanto, sul fronte internazionale cresce la pressione. Amnesty International ha pubblicato un documento in cui chiede ai governi di agire con urgenza per fermare quello che definisce senza esitazioni “il genocidio in corso a Gaza”. “Non basta più condannare a parole – ha dichiarato la segretaria generale Agnès Callamard – Gli Stati devono imporre un cessate il fuoco immediato e revocare il blocco imposto da Israele, che sta affamando la popolazione.”
Amnesty chiede anche di interrompere ogni tipo di commercio militare con Israele, sospendere accordi economici e cooperare con la Corte penale internazionale per punire i crimini commessi.
Dai dati delle Nazioni Unite emerge un quadro drammatico: oltre 60.000 morti, la metà donne e bambini. Più di due milioni di persone vivono senza accesso a beni primari, in un’area ormai ridotta a cumuli di macerie.
Secondo le Ong israeliane, l’elemento chiave è la continuità storica: la lunga serie di discriminazioni, occupazione militare e isolamento subiti dai palestinesi avrebbe preparato il terreno a un’azione estrema e sistematica, oggi mascherata da risposta difensiva. Il rischio, dicono, è che i metodi usati a Gaza vengano estesi anche alla Cisgiordania, dove già si registrano escalation e repressioni.
“Molti dei nostri operatori sul campo hanno pagato un prezzo personale altissimo – ha raccontato Kareem Jubran, da vent’anni alla guida delle indagini di B’Tselem – Hanno perso familiari, amici, colleghi. E anche qui, in Israele, chi denuncia viene isolato.”
Nonostante tutto, qualcuno inizia a guardare in faccia la realtà. Infatti, cinquantotto membri del Parlamento europeo hanno rispinto “inequivocabilmente la recente mozione della Knesset israeliana volta a imporre la sovranità sui territori palestinesi occupati, compresa la Cisgiordania. Questa mossa viola palesemente il diritto internazionale e consolida ulteriormente l’annessione, l’espropriazione e l’apartheid”. Lo si legge nella lettera firmata dal gruppo di europarlamentari e indirizzata a tutte le istituzioni dell’Unione Europea. L’Ue, si legge, “deve vietare le attività economiche che contribuiscono direttamente o indirettamente all’annessione, incluso il commercio di beni provenienti dagli insediamenti”.
Amnesty infatti, avverte “senza pressione internazionale vera e continua, il genocidio continuerà. E nessuno potrà dire di non averlo saputo”. L’Ong, ha inoltre sollecitato le imprese a rifiutare qualsiasi coinvolgimento diretto o indiretto nelle azioni illegali di Israele e di assicurarsi, pertanto, di non contribuire a gravi violazioni dei diritti umani. È fondamentale denunciare imprese, banche e altri attori economici che contribuiscono o sono direttamente legati alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, aveva lanciato un appello forte e senza precedenti: “interrompere ogni tipo di rapporto con Israele, non solo nei confronti delle sue autorità militari e civili operanti nei Territori occupati, ma anche a livello politico, diplomatico ed economico globale”.
Albanese non ha risparmiato durante la recente conferenza di Bogotà, critiche neppure all’Ue, di cui lei stessa è cittadina: “Come europea, temo ciò che l’Ue è diventata per molti: una confraternita di Stati che predica il diritto ma è guidata da logiche coloniali, allineandosi agli interessi statunitensi anche quando questi ci trascinano da un conflitto all’altro”. Parole dure, che chiamano in causa le responsabilità dei governi occidentali nel mantenere lo status quo in Palestina.