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Il Festival Cinemambiente, a Torino: la catastrofe che si può evitare

Il Festival Cinemambiente, a Torino: la catastrofe che si può evitare

K metro 0 – Torino – Il monito del saggio, la denuncia del militante, l’allarme dello scienziato, l’appello dell’intellettuale, l’invito ad assumere nuovi comportamenti che può arrivare, pacato e a bassa voce, anche dall’inquilino della porta accanto: c’è tutto quello che serve nel Festival Cinemambiente (1-6 ottobre al cinema Massimo, a Torino), per fermarsi a

K metro 0 – Torino – Il monito del saggio, la denuncia del militante, l’allarme dello scienziato, l’appello dell’intellettuale, l’invito ad assumere nuovi comportamenti che può arrivare, pacato e a bassa voce, anche dall’inquilino della porta accanto: c’è tutto quello che serve nel Festival Cinemambiente (1-6 ottobre al cinema Massimo, a Torino), per fermarsi a riflettere e dare ciascuno un piccolo, infinitesimale eppure indispensabile contributo alla causa ambientale. Ma in effetti tutto questo c’era già in questa rassegna di film che giunge alla 24esima, e tuttavia oggi sembra assumere come un valore in più, e non soltanto quello che può avere una voce che grida nel deserto, dal momento che l’allarme sulle condizioni in cui versa il pianeta, è diventato patrimonio comune e universale, punto centrale dell’agenda politica dei singoli Paesi e degli Stati variamente associati.

E Cinemambiente, il più importante festival in Italia su questa tematica e uno dei più prestigiosi in Europa, continua a fare la sua parte.

In questa situazione di nuova e imperiosa consapevolezza che ora come all’improvviso tocca ogni angolo del mondo, per il direttore Gaetano Capizzi, anche fondatore della manifestazione, non deve essere stato difficile scegliere il titolo di quest’anno: E’ tempo di cambiare, Time for Change, non un appello o un’esortazione, dice Capizzi con i tanti altri che hanno il potere di attuare i cambiamenti necessari, ma la constatazione di una scadenza ineludibile. E in effetti scorrendo i titoli del programma e le loro brevi note non c’è che da mettersi all’opera. Al centro di questa edizione, con 89 titoli provenienti da più di 30 Paesi, non poteva che esserci il tema che percorre allarmi, appelli e denunce: il clima che cambia precipitosamente in modo innaturale a causa, dicono ormai unanimemente gli esperti, delle attività irresponsabili dell’uomo e che, ancora gli studiosi, sta portando la terra a un punto di non ritorno. Del resto è appena arrivato dall’Onu il richiamo al “codice rosso per l’umanità”, mentre si moltiplicano gli appuntamenti internazionali sul tema.

Documentari e cortometraggi, le due sezioni della rassegna ora nuovamente competitive dopo le incertezze e le precarietà dell’anno scorso dovute all’epidemia in cui si è svolto il festival, raccontano in immagini quello che quotidianamente ci arriva dalle parole allarmate di scienziati e ora anche politici. E sembra di trovarsi di fronte alla sinossi di un unico film dell’orrore di chissà quale metraggio. 

Si intrecciano nelle opere della rassegna, spesso firmate da registi sconosciuti al grande pubblico eppure acclamati e premiati nelle manifestazioni cinematografiche internazionali dedicate all’ambiente, temi che si legano l’uno all’altro come tasselli di un mosaico: cambiamenti climatici, riscaldamento globale, uomini e popoli, natura e animali, i mari e i loro abitatori che già oggi, e non domani, soffrono della febbre che ha raggiunto il pianeta. E così, dalla Francia Animal, che, si legge nelle note del programma, getta lo sguardo sull’emergenza del collasso della biodiversità, sul fenomeno della sesta estinzione di massa e sul nostro rapporto con le altre specie animali.

Dagli Stati Uniti, The Conservation Game, la moda dilagante dei grandi felini tenuti come animali da compagnia, e sui grandi affari economici che genera il traffico di animali esotici.

Dall’Iran, Fish Eye, sui complessi e misconosciuti meccanismi che regolano il mondo della pesca industriale, con una lotta per la sopravvivenza che unisce uomini, pescatori che lavorano in condizioni proibitive, ed esseri viventi del mare.

Dall’Inghilterra, The Ants and the Grasshopper, che partendo da un piccolo villaggio del Malawi afflitto dalla siccità arriva in California e alla Casa Bianca, tra agricoltori disperati e negazionisti della crisi climatica, e in mezzo la scarsa consapevolezza di un’emergenza planetaria  in cui nessun paese si salva da solo, accanto a certi temi irrisolti della società americana come il divario tra ricchi e poveri, le profonde differenze tra zone urbane e rurali, le ineguaglianze di genere e di razza.

E poi, nelle tante altre storie che purtroppo non sono fantasia, di popoli, di comunità, di individui in ogni angolo del mondo: nel Nord del Niger, il cambiamento climatico che ha reso un calvario quotidiano l’accesso all’acqua; in Portogallo, nella città di Porto, la demolizione e riqualificazione di un quartiere-ghetto di case popolari, lo sgombero degli abitanti, la transizione lunga, una sospensione che diventa rabbia e senso di impotenza; ancora dall’Inghilterra le condizioni degli allevamenti intensivi che coprono la domanda europea di uova; e sempre dalle coste inglesi il degrado del mare visto attraverso l’attività di un anziano pescatore; una disastrosa alluvione in Iran provocata da un clima impazzito che in due giorni ha riversato la pioggia di un intero anno; in Camerun, con il disboscamento della foresta, peraltro sotto tutela per la sua biodiversità, la minaccia della sopravvivenza di tante specie animali, soprattutto primati, già a rischio di estinzione; in Brasile, la progressiva erosione di una spiaggia in una cittadina a nord di Rio de Janeiro che rischia di scomparire; i rischi di autoestinzione dell’umanità con il fenomeno che la scienza chiama spillover, il salto di virus da una specie all’altra che può provocare epidemie, come quella che stiamo vivendo.

Nel programma di Cinemambiente anche un nuovo spazio di documentari e cortometraggi dedicato alla produzione italiana che, dicono i responsabili del festival, sta conoscendo una interessante vitalità di quantità e qualità delle opere. Nei racconti, le trasformazioni delle città che nelle loro contraddizioni lasciano numerosi interrogativi con la superfetazione di nuovi quartieri a loro volta assediati dai centri commerciali; le denunce di inquinamento del suolo che riescono a sfuggire ai controlli, spesso insufficienti; il rapporto tra uomini e animali, a cominciare dalla diffusa pratica dell’abbandono di cani; la tenerezza che sprigiona dallo spaesamento di due cuccioli di lupo in un centro di recupero per la fauna selvatica; il ritorno alla terra con tante storie di giovani che con consapevolezza e piena lucidità scelgono di cambiare vita dedicandosi all’agricoltura, all’allevamento di animali, alla pastorizia, e che da queste attività traggono di che vivere e nuove quanto sconosciute ragioni, appunto, di vita.

Tutti i film quest’anno saranno disponibili, dal giorno successivo alla proiezione in sala, a capienza limitata per le norme dovute alla prevenzione sanitaria, sulla piattaforma OpenDDB, con un massimo di 500 accessi per ciascun titolo.

Tra gli appuntamenti del festival c’è l’omaggio con premio alla carriera al regista francese Yann Arthus-Bertrand, che presenta il suo ultimo film, Legacy, un testamento per immagini che ripercorre il suo cinquantennale impegno nella fotografia e nel cinema sull’ambiente, con gli inquietanti interrogativi sull’eredità che viene lasciata alle nuove generazioni nell’imminenza di una catastrofe ecologica che, forse, si può ancora evitare.

Nella giuria dei documentari che assegna pochissimi premi, appena 4, con cifre davvero modeste anche in ragione dell’impegno che comporta la realizzazione di questi film – si va dai 5 mila euro fino a scendere a 1.500 euro – offerti da enti e istituti che peraltro hanno fatturati miliardari, figurano il regista Juliano Ribeiro Salgado, che ha seguito le orme del padre, il grande Sebastiano Salgado, e il torinese Daniele Segre, da tempo riconosciuto come maestro italiano del documentario.

Certo, il valore in vil denaro dei premi non corrisponde a quello dei film, ma sembra essere in perfetta “armonia” con le risorse che il Museo del cinema di Torino, al quale fanno capo i festival della città, attribuisce a Cinemambiente: appena 250 mila euro, e fino a pochi anni fa la rassegna poteva contare su circa 100 mila euro in più. Un trattamento che non si direbbe “in armonia” con quello che merita questo festival.

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Nino Battaglia
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