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Cesare Merzagora, un gigante “di passaggio” al Colle

Cesare Merzagora, un gigante “di passaggio” al Colle

K metro 0 – Roma – Cesare Merzagora (9 novembre 1898 – 1° maggio 1991), pur nella fugace esperienza della supplenza al Quirinale, dovuta alla malattia del presidente Antonio Segni, merita una doverosa menzione non solo per il ruolo svolto con tanta autorevolezza e discrezione nell’ambito di un periodo assai delicato per la storia dell’Italia

K metro 0 – Roma – Cesare Merzagora (9 novembre 1898 – 1° maggio 1991), pur nella fugace esperienza della supplenza al Quirinale, dovuta alla malattia del presidente Antonio Segni, merita una doverosa menzione non solo per il ruolo svolto con tanta autorevolezza e discrezione nell’ambito di un periodo assai delicato per la storia dell’Italia repubblicana, ma anche per l’assoluta indipendenza di pensiero e l’alto senso dello Stato.

Dal 1948 fu costantemente eletto in Parlamento come indipendente nelle file della Democrazia cristiana, sino al 1963, allorché Segni lo nominò senatore a vita. Del Senato fu il presidente più “longevo”, dal 1953 al 1967, riscuotendo unanime stima anche dall’opposizione, che in lui riconobbe un leale garante, per la sua correttezza ed imparzialità. Vigile tutore delle prerogative del Parlamento contro ogni intromissione esterna ed il crescente tracimare dei partiti, amava ripetere: “È il Parlamento che deve restare in ogni circostanza, la suprema e determinante assise del Paese, ed è il Parlamento che deve pretendere che nessuna decisione venga presa al di fuori o al di sopra di esso

Nella sua visione politica, mirante alla migliore realizzazione del pubblico bene, rientrava la convinzione, già manifestata sin dai tempi dell’appartenenza alla Confindustria, della necessità di aprire la compagine governativa anche a persone non organiche ai partiti, ma dotate di competenze tecniche di alto livello, come gli industriali. Osservava al riguardo: “Si dice che l’Italia sia povera di uomini. È un’eresia: in tutti i settori della vita economica vi sono persone di assoluto prim’ordine; naturalmente occorre conoscerle per apprezzarle, perché essendo appunto di prim’ordine, non si preoccupano di mettersi in vista”.

Frequenti furono i conflitti con il Capo dello Stato Gronchi, tra cui il più eclatante fu quello scoppiato il 5 aprile 1960 a margine delle dimissioni rassegnate dal presidente del Consiglio Segni, come epilogo di un discorso assai critico di Merzagora contro l’Esecutivo a guida di quest’ultimo.

Gronchi scrisse una lettera “di fuoco” a Merzagora, esprimendogli le sue riserve di poiché quelle dimissioni erano state l’epilogo dell’esecrato discorso, considerato improvvido in quanto pronunziato nel corso di una crisi ministeriale e nell’imminenza delle consultazioni del Capo dello Stato. Gronchi stigmatizzò il discorso in questione per le censure rivolte a fenomeni di malcostume, di corruzione e di immoralità, senza che peraltro vi fosse stata una precisa denunzia nominativa in merito a fatti e persone, con la conseguenza di speculazioni scandalistiche della stampa e disorientamento dell’opinione pubblica, portata così a ritenere che il marcio investisse le istituzioni nel loro insieme, e non marginali e circoscritti accadimenti.

Il 21 aprile Merzagora, rientrato a Roma, rispose all’interlocutore manifestando stupore per l’aver ricevuto una così diffusa critica al proprio discorso, ed entrando nello specifico dei rilievi indirizzatigli, precisò di doverne rispondere solo al Senato, il quale lo aveva tanto apprezzato da indurlo, dopo 4 settimane, a recedere dalle dimissioni ivi rassegnate.

Un altro amaro calice dovette bere Merzagora nel 1964, in seguito all’accusa gratuitamente mossagli dalla Sinistra di aver segretamente covato disegni golpisti durante la nota crisi estiva del governo Aldo Moro. Vero è, al contrario, che nel caldo luglio del 1964 lo zelo del Giovanni de Lorenzo si era spinto a schedare uomini politici di primo piano, tra i quali lo stesso Merzagora, senza nulla trovare su quell’uomo quanto altri mai retto ed adamantino, alieno da intrallazzi e da giochi di potere.

Nel mese di agosto, come è noto, in seguito all’infortunio cerebrale occorso al presidente Segni, Merzagora nella sua veste di seconda carica dello Stato assunse ad interim le funzioni di Capo dello Stato. Nei quattro mesi alla presidenza della Repubblica (peraltro guidata da Palazzo Giustiniani ad ulteriore segno di rispetto per il titolare e quale lodevole scrupolo istituzionale), il “supplente” cercò di razionalizzare le funzioni di tale apparato, indirizzandosi a ridurne i costi di gestione, in un’ottica di sobrietà che riteneva essere venuta meno durante la presidenza Gronchi, in quanto il dilatarsi della “visibilità” del diretto interessato, aveva cagionato l’espansione delle spese funzionali al nuovo modo di interpretare il ruolo presidenziale. Durante il periodo della supplenza, Merzagora mantenne volutamente un basso profilo, per cui nelle rassegne stampa relative all’arco di tempo agosto-dicembre 1964, non appaiono tracce di interventi significativi di alcun genere da parte sua, a conferma del puntuale e leale rispetto dell’impegno morale assunto spontaneamente nei confronti dell’ammalato.

Nel 1967 si dimise – e definitivamente – dalla presidenza di Palazzo Madama, in seguito al discorso che aveva pronunciato la settimana prima alla cerimonia della consegna delle insegne ai 25 nuovi Cavalieri del Lavoro, alla presenza del nuovo Capo dello Stato Giuseppe Saragat. In tale circostanza formulò interrogativi che spaziavano dal terrorismo altoatesino al banditismo sardo; dal finanziamento dei partiti, all’indebitamento spropositato della finanza locale; dalle disfunzioni dell’assistenza previdenziale, all’invadenza dello Stato ai danni dell’iniziativa privata; dal dissesto radiotelevisivo, ai problemi della libertà di stampa; dalla mortificazione del merito in favore delle appartenenze partitiche, alle industrie improduttive foraggiate dallo Stato.

Il 1°maggio 1991 si spense all’età di 93 anni l’indomito uomo politico, la cui opera non effimera può a buon diritto considerarsi una delle pagine più alte della storia d’Italia.

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