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Montenegro: la legge sui beni della chiesa. Tensioni nei Balcani

Montenegro: la legge sui beni della chiesa. Tensioni nei Balcani

K metro 0 – Montenegro – Si riaccendono tensioni etniche e religiose nel delicato scenario dei Balcani. Le scintille partono dal piccolo Montenegro – neppure un milione di abitanti ma stato indipendente che appartiene alla Nato – per decenni legato alla Serbia dalla quale, dopo l’ultima guerra, si è progressivamente staccato fino a prenderne nettamente

K metro 0 – Montenegro – Si riaccendono tensioni etniche e religiose nel delicato scenario dei Balcani. Le scintille partono dal piccolo Montenegro – neppure un milione di abitanti ma stato indipendente che appartiene alla Nato – per decenni legato alla Serbia dalla quale, dopo l’ultima guerra, si è progressivamente staccato fino a prenderne nettamente le distanze e rifiutarne ogni influenza. Nella prima decade di gennaio 2020 è entrata in vigore una legge apparentemente ispirata a criteri di laicità, ma che in realtà punta a stabilire la supremazia degli ortodossi locali rispetto a quelli serbi. Attraverso una serie di norme, si stabilisce che le autorità ecclesiastiche che non possono dimostrare la proprietà dei beni in loro possesso, devono cederli allo stato. Di fatto, si gettano così le basi legali per togliere gran parte dei luoghi di culto agli ortodossi che fanno riferimento al patriarcato serbo, a tutto beneficio della chiesa autocefala, sostenuta dal governo del presidente Milo Djucanovic.

La creazione di chiese autocefale aumenta la frantumazione dell’identità religiosa nei Balcani con dirette conseguenze sulle dinamiche politiche, come è avvenuto recentemente (2018) nell’Ucraina presieduta dall’allora Porosenko quando si staccò dalla chiesa russa.

La legge montenegrina è fortemente osteggiata anche con proteste di piazza che hanno la benedizione della Metropolia del Montenegro e del Litorale, organica alla Chiesa ortodossa serba, sotto la guida del vescovo metropolita Amflohije Radović e dal Fronte Democratico che riunisce partiti di opposizione conservatori e filo-serbi. Vengono contestati gli articoli che prevedono che le comunità religiose debbano produrre documenti attestanti il loro diritto alla proprietà dei beni immobiliari che detengono, e se i documenti non esistono o la loro data non è anteriore al 1918 (la data in cui il Regno del Montenegro venne assorbito nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi Regno di Jugoslavia, e la Chiesa autocefala del Montenegro passò sotto il controllo della Chiesa ortodossa serba), i beni verranno incamerati dallo Stato. Nonostante i dinieghi del governo guidato dal Partito democratico dei socialisti del Montenegro, la misura sembra pensata per privare della maggior parte dei suoi edifici religiosi (chiese e monasteri) la Metropolia e trasferirli alla Chiesa ortodossa montenegrina.

La questione, ovviamente, non lascia indifferenti i vicini di casa, a cominciare dalla Bosnia e dalla Croazia che, nonostante i vent’anni trascorsi, paticono gli strascichi del conflitto.

Da tempo la società serba è scossa da forti tensioni sfociate anche in grandi cortei che hanno riempito le strade nei primi giorni di quest’anno. A questo contesto complicatissimo si aggiunge l’eterna diatriba dei rapporti con il Kosovo. La maggior parte dei serbi, tra cui la Chiesa ortodossa, esclude categoricamente ogni possibilità di riconoscere Pristina ufficialmente, nonostante gli innumerevoli vertici dei rispettivi capi di governo con la mediazione di Bruxelles.

Dal canto suo la Croazia vive una stagione di passaggio e di trasformazione con forme di radicalizzazione dello scontro politico, come si è visto anche nel corso delle recenti elezioni presidenziali.

Ogni ulteriore complicazione nel delicato puzzle balcanico rischia quindi di espandersi a macchia d’olio con effetti pericolosi. Come scrive il giornalista di Bloomberg, Nikolay Krastev, “l’unica via d’uscita dalla situazione di stallo è “tornare al tavolo dei negoziati e creare l’atmosfera necessaria per il dialogo”. “Qui si intrecciano molti interessi, la Russia, gli Stati Uniti, che sembrano disponibili a una spartizione dei territori in base alla composizione etnica della popolazione”, sostiene. Ma “cambiare i confini è pericoloso perché creerebbe un precedente di cui si avvarrebbero Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord eccetera”.

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Andrea Lazzeri
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