K metro 0 – Roma – Giovedì 17 luglio, alle prime luci del mattino, una squadra della Digos ha bussato alla porta di Gabriele Rubini, meglio conosciuto come Chef Rubio, un vero e proprio fenomeno televisivo consacrato al successo dal format ‘Unti e Bisunti’, serie dedicata allo street-food – diventata un cult. Un fenomeno che
K metro 0 – Roma – Giovedì 17 luglio, alle prime luci del mattino, una squadra della Digos ha bussato alla porta di Gabriele Rubini, meglio conosciuto come Chef Rubio, un vero e proprio fenomeno televisivo consacrato al successo dal format ‘Unti e Bisunti’, serie dedicata allo street-food – diventata un cult. Un fenomeno che però non trova pace per le sue idee pro Palestina e riceve minacce ogni giorno, oltre ad aver subito pesanti aggressioni e pestaggi in passato.
Gli agenti, su ordine della Procura, sono entrati nel suo appartamento e hanno perquisito ogni stanza, portando via ogni dispositivo elettronico: smartphone, pc, tablet, chiavette Usb. Un blitz in piena regola, legato a un’indagine per istigazione all’odio razziale, partita da due post pubblicati da Rubini su X nei giorni dell’attacco all’ambasciata israeliana a Washington.
Quel giorno, due funzionari israeliani – Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim – erano stati uccisi nei pressi del Capitol Jewish Museum da Elias Rodriguez. Proprio in coincidenza con quell’attacco, Rubini aveva scritto due messaggi duri contro Israele e il sionismo. Ora è indagato per violazione dell’articolo 604 bis del codice penale, che punisce chi incita alla violenza per motivi etnici, nazionali o religiosi.
Il primo post risale al 21 maggio, qualche ora prima dell’attentato: “Morte ai diplomatici complici del genocidio in atto da 77 anni, morte agli invasori e a chi li finanzia, morte al colonialismo, suprematismo, razzismo e odio antimusulmano. Morte quindi al sionismo e alla colonia ebraica. Lunga vita alla Palestina e ai nativi semiti palestinesi”.
Il secondo post è apparso il giorno dopo, insieme alle foto delle due vittime, che – come si è poi saputo – stavano per sposarsi. Rubini aveva scritto: “Che differenza c’è tra un impiegato dell’ambasciata della colonia ebraica e un soldato suprematista ebraico che massacra i palestinesi per il loro solo esistere e resistere? Che uno esegue gli omicidi (Eichmann) e l’altro fornisce legittimità e mezzi per farlo impunemente”.
La mattina del blitz, Rubini era già sveglio. Gli agenti gli hanno mostrato il mandato di perquisizione e hanno iniziato a rovistare ovunque. Una volta raccolti tutti i dispositivi, lo hanno accompagnato al commissariato di Frascati, dove è stato interrogato e dove è stata fatta una copia del contenuto di telefoni, pc e memorie esterne. Tutto questo è durato quasi 13 ore. Da allora, Rubini è rimasto senza alcun accesso ai suoi strumenti digitali.
A raccontare l’accaduto è stato Alberto Fazolo, attivista e giornalista, amico di lunga data di Rubini. È stato lui a diffondere la notizia lunedì 21 luglio, spiegando che Gabriele lo aveva incaricato personalmente di parlare al posto suo, visto che al momento è tagliato fuori da internet, dai social, dalle chat. “È libero e sta bene – ha detto Fazolo – ma per un po’ non potrà usare i suoi canali”.
Secondo Fazolo, il sequestro è servito non solo a indagare sui post pubblici, ma anche a passare al setaccio le chat private, in particolare su Telegram e Signal. Soprattutto, il caso è stato affidato all’antiterrorismo, non alla Polizia Postale, come di solito succede per i contenuti pubblicati online. Un dettaglio non da poco.
Per Chef Rubio non è la prima volta. A marzo di quest’anno era già stato indagato per istigazione all’odio. Al di là di queste pesanti restrizioni, la sua vita è spesso in pericolo. A maggio era stato vittima di un’aggressione brutale: sei persone lo avevano aspettato sotto casa e pestato con martelli e mattoni. Era stato lui stesso, ancora sanguinante, a raccontarlo con un video su X, mostrando il viso tumefatto. Ma, a quanto pare, di quell’indagine non si è saputo più nulla.
Fazolo, ha parlato dunque di una “campagna di demonizzazione” in corso da tempo contro Rubini, alimentata – secondo lui – proprio dalla sua posizione in favore della causa palestinese. “È nel mirino da mesi”, ha detto il giornalista. E ora, con il sequestro dei dispositivi, la situazione è diventata ancora più pesante.
Di fatto, Rubini si trova ora del tutto scollegato dal mondo digitale. Niente accesso ai suoi profili, niente contatti, nessun modo per lavorare o comunicare. Un isolamento forzato che – anche se non comporta arresti o restrizioni fisiche – pesa come una condanna. Per chi ha fatto della comunicazione e dell’attivismo online uno strumento quotidiano, restare senza dispositivi è un duro colpo.
Intanto l’indagine va avanti. La Procura dovrà valutare se quei due post costituiscano davvero un’istigazione alla violenza o rientrino, per quanto duri nei toni, nel diritto di esprimere opinioni politiche. È una questione delicata, che tocca il nervo scoperto della libertà di parola, in un momento storico dove il conflitto israelo-palestinese spacca le coscienze e le narrazioni.
Rubini, fanno sapere gli amici, non ha intenzione di fermarsi. Ma per adesso è costretto al silenzio. Non per scelta, ma perché privato dei mezzi per parlare.
L’aggressione di maggio era stata da lui stesso denunciata, appunto, in un video in cui appare sanguinante e attribuisce l’aggressione a una “squadraccia sionista”. “Mi hanno aspettato fuori casa e massacrato di botte – aveva dettagliato – erano in 6, hanno tagliato i fili del cancello per massacrarmi fuori casa”. Qualche ora dopo Chef Rubio postava un’altra foto e un post in cui ringraziava tutti e tutte per il sostegno: “Alla fine punti in testa dove mi hanno dato la martellata, tagli ed escoriazioni dove mi hanno preso a mattonate, frattura dell’orbita facciale dove sono finiti i 60 pugni mirati, e si ricomincia. Un abbraccio alla comunità ebraica”.
di Sandro Loria