K metro 0 – New Delhi – Per il quinto giorno consecutivo, nella notte tra lunedì 28 e martedì 29 aprile, le truppe pachistane hanno violato il cessate il fuoco lungo la Linea di controllo, il “confine provvisorio” che dal 1948 delimita il Kashmir amministrato dall’India da quello amministrato dal Pakistan. Il timore che si
K metro 0 – New Delhi – Per il quinto giorno consecutivo, nella notte tra lunedì 28 e martedì 29 aprile, le truppe pachistane hanno violato il cessate il fuoco lungo la Linea di controllo, il “confine provvisorio” che dal 1948 delimita il Kashmir amministrato dall’India da quello amministrato dal Pakistan.
Il timore che si arrivi a uno scontro militare tra India e Pakistan, due paesi dotati entrambi di armi nucleari, sta prendendo corpo dopo il via libera del premier indiano Modi alla “risposta militare” promessa da New Delhi all’indomani dell’attentato di martedì 22 aprile a Pahalgam, nel Kashmir amministrato dall’India, dove un commando di quattro terroristi – ancora a piede libero – ha ucciso 26 turisti: tutti uomini, la maggior parte hindu e un nepalese.
Nella serata del 29 aprile, al termine del vertice di sicurezza (alla presenza del ministro della difesa Rajnath Singh, del consigliere per la sicurezza nazionale Ajit Doval e dei capi delle forze armate indiane), Modi ha dato all’esercito “libertà operativa totale su modalità, obiettivi e tempistiche della nostra risposta”, confidando completamente “nelle abilità professionali delle forze armate indiane”.
New Delhi ha indicato che l’azione terroristica, rivendicata da un gruppo separatista locale legato al radicalismo islamico, avrebbe visto il coinvolgimento del Pakistan e ha varato una serie di misure contro Islamabad.
Il massacro di Pahalgam, segna l’attacco terroristico più mortale nel Kashmir amministrato dall’India dal 2019. Le vittime non erano soldati o funzionari, ma civili in vacanza in una delle destinazioni turistiche più pittoresche della regione, nota come “piccola Svizzera”, a circa 50 km dalla città principale, Rinagar.
Un attacco brutale e simbolico: per colpire non solo vite umane, ma anche un fragile senso di normalità, che lo Stato indiano ha lavorato duramente per diffondere nella regione contesa da New Delhi e Islambad.
L’escalation tra India e Pakistan colpisce anche i media: New Delhi ha bloccato 15 canali online pakistani (trasmessi via YouTube da organi d’informazione quali Dawn, Samaa TV, ARY News, Bol News, Raftar, Geo News e Suno News, ha affermato l’agenzia di stampa Press Trust of India) accusati di diffondere “provocazioni” sugli attentati della scorsa settimana.
New Delhi li aveva attribuiti a Islamabad, che aveva respinto le accuse. Ma per tutta la giornata di martedì 29 aprile, India e Pakistan hanno continuato ad accusarsi a vicenda di finanziare e organizzare attentati terroristici oltreconfine.
In una riunione dell’Ufficio antiterrorismo delle Nazioni unite a New York, l’ambasciatrice indiana Yojna Patel ha ricordato che pochi giorni prima il ministro della Difesa pachistano, Khawaja Asif, aveva ammesso in diretta sulla britannica Sky News che “in passato abbiamo fatto questo lavoro sporco per conto degli Stati Uniti per più o meno tre decenni, e per l’Occidente, compresa la Gran Bretagna. E questo è stato un errore, e ne abbiamo pagato le conseguenze”.
Poche ore dopo, in una conferenza stampa a Islamabad, il direttore generale delle pubbliche relazioni dell’esercito pachistano, Ahmed Sharif Chaudhry, ha mostrato alla stampa una “piccola parte” delle “prove incontrovertibili” che indicherebbero il coinvolgimento diretto di almeno quattro ufficiali dell’esercito indiano nell’organizzazione di una serie di attentati terroristici sventati dalle forze dell’ordine pachistane.
E intanto, in India, aumentano gli attacchi alla minoranza musulmana: sui social media si moltiplicano i video di estremisti hindu che malmenano commercianti e studenti kashmiri, che a centinaia stanno rientrando in Kashmir in cerca di rifugio da un odio intercomunitario sempre più diffuso.
Il ministro della Difesa Rajnath Singh ha promesso una “forte risposta” non solo contro i responsabili degli attentati, ma anche contro le menti dietro gli “atti nefasti” nel Kashmir indiano.
Mentre le forze armate indiane e pakistane si scambiano colpi di arma da fuoco lungo la linea di confine, cresce la preoccupazione della popolazione per l’escalation tra i due rivali. E c’è rabbia anche dopo che i soldati indiani hanno fatto saltare in aria nove case di presunti ribelli in Kashmir e arrestato quasi 2.000 persone, scatenando l’indignazione pubblica e accuse di “punizione collettiva”.
Le demolizioni, che hanno lasciato diverse famiglie senza casa, sono iniziate il giorno dopo l’attacco del 22 aprile. Lo scorso novembre, la Corte Suprema indiana aveva condannato la cosiddetta “bulldozer justice”, una pratica sempre più diffusa negli ultimi anni in India, come punizione per chi veniva accusato o condannato per “crimini”. Applicata in particolare negli Stati del Subcontinente amministrati dal Bharatiya Janata Party (BJP), il maggior partito conservatore del Paese, fautore di una politica nazionalista di difesa dell’identità induista.
“Queste azioni arroganti e arbitrarie non hanno posto in una democrazia costituzionale” avevano sentenziato i giudici supremi. Amnesty International aveva elogiato la sentenza, affermando che, sebbene tardiva, era un passo avanti nella tutela dei diritti delle persone. “E’ una grande vittoria per porre fine alle demolizioni profondamente ingiuste, diffuse, illegali e punitive, che colpiscono principalmente la minoranza musulmana, da parte delle autorità indiane e che sono state spesso spacciate per ‘giustizia da bulldozer’ dai leader politici e dai media del partito al potere”, aveva dichiarato in una nota.
Senza menzionare le demolizioni, il primo ministro del Jammu e Kashmir, Omar Abdullah, ha affermato che i colpevoli devono essere puniti senza pietà, “ma non bisogna permettere che persone innocenti diventino vittime di danni collaterali“. Anche l’ex premier Mehbooba Mufti ha criticato le demolizioni, esortando il governo a distinguere tra “terroristi e civili“.