K metro 0 – Milano – Un’inchiesta della Procura di Milano riporta alla luce uno dei capitoli più oscuri del conflitto nei Balcani: la presenza di italiani tra i cecchini che, durante l’assedio di Sarajevo, sparavano sui civili per puro divertimento. Secondo quanto ricostruito dal Giornale e confermato da un esposto depositato in Procura dal
K metro 0 – Milano – Un’inchiesta della Procura di Milano riporta alla luce uno dei capitoli più oscuri del conflitto nei Balcani: la presenza di italiani tra i cecchini che, durante l’assedio di Sarajevo, sparavano sui civili per puro divertimento. Secondo quanto ricostruito dal Giornale e confermato da un esposto depositato in Procura dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, almeno duecento italiani avrebbero partecipato a una sorta di “turismo della guerra”, pagando somme ingenti per uccidere uomini, donne e bambini tra il 1992 e il 1996.
Un macabro tariffario
A rivelarlo sarebbe una fonte dell’intelligence bosniaca, identificata come Edin Subašić, ex agente segreto che all’epoca avrebbe collaborato con un’agenzia di viaggi molto particolare. L’agenzia organizzava trasferte da Trieste, Milano e Torino fino alle colline intorno a Sarajevo, dove i “cecchini del weekend” potevano sparare sulla popolazione assediata.
Secondo le testimonianze raccolte, esisteva persino un tariffario: i bambini erano le vittime più “costose”, fino a cento milioni di vecchie lire, seguiti da uomini in divisa, donne e anziani, che “si potevano uccidere gratis”.
L’esposto di Gavazzeni
L’esposto di Gavazzeni, redatto con l’assistenza dell’ex pm Guido Salvini e dell’avvocato Nicola Brigida, è ora all’attenzione del magistrato milanese Alessandro Gobbis, esperto di antiterrorismo. Nelle 17 pagine del documento si riportano dettagli inquietanti: già alla fine del 1993, l’intelligence bosniaca avrebbe avvertito la sede locale del Sismi – il servizio segreto militare italiano – della presenza di almeno cinque italiani sulle colline intorno alla città, accompagnati per “sparare ai civili”.
Uno scambio di email, datato novembre 2024, tra Gavazzeni e la fonte bosniaca, racconta di un volontario serbo catturato che aveva riferito come “cinque stranieri, di cui almeno tre italiani, viaggiarono con lui da Belgrado alla Bosnia-Erzegovina”. Uno di loro si sarebbe presentato come “milanese, proprietario di una clinica privata specializzata in chirurgia estetica”.
“Se il reato resta consumato a Sarajevo, per radicarlo in Italia è sufficiente che una frazione della condotta criminale sia stata commessa qui – spiega l’avvocato Brigida – in base all’articolo 6 del Codice penale. Quindi è sufficiente che qui ci sia stata, ad esempio, anche solo l’ideazione del piano criminoso da parte degli italiani che decisero di farsi portare a Sarajevo con una logistica piuttosto complicata”.
Dai safari africani a quelli umani
Il profilo dei partecipanti, delineato dalle indagini, è agghiacciante: ricchi appassionati di armi e di caccia grossa, spesso ex militari o simpatizzanti di estrema destra, che cercavano nell’orrore della guerra l’adrenalina di un “safari umano”.
Secondo la testimonianza di Subašić, i cecchini arrivavano “attraverso l’Italia a Belgrado e poi a Pale, vicino a Sarajevo, dove venivano ospitati dagli ufficiali dell’esercito serbo”. I trasferimenti sarebbero avvenuti con voli charter della compagnia serba Aviogenex, che aveva una filiale a Trieste. Tra gli organizzatori viene citato Jovica Stanišić, ex capo dei servizi segreti serbi, già condannato per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aia.
Le testimonianze e il documentario
Le prime voci sulla presenza di italiani tra i cecchini risalgono al 1995, quando il Corriere della Sera accennò al tema senza però prove concrete. Negli anni successivi, il giornalista Luca Leone, nel romanzo “I bastardi di Sarajevo” (2014), aveva ripreso quell’ipotesi, lasciando intendere che non si trattasse di semplice fantasia.
A confermare la tesi è arrivato anche il documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, presentato nel 2022 all’Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival. Un testimone anonimo, intervistato nel film, racconta di “cacciatori di esseri umani” provenienti da Stati Uniti, Canada, Russia e Italia, disposti a pagare per partecipare a questo “gioco di guerra”.
Un’indagine difficile
L’inchiesta milanese, aperta per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti, al momento è contro ignoti. Ma secondo Gavazzeni, “ci sono ancora testimoni oculari vivi”, anche se sarebbero “sottoposti a pressioni dai servizi serbi per mantenere il silenzio”.
La stessa Benjamina Karić, ex sindaca di Sarajevo, ha trasmesso alla Procura una relazione sui “ricchi stranieri amanti di imprese disumane” che partecipavano ai massacri. Tuttavia, il clima resta teso: la Karić sarebbe in attrito con Ljubiša Ćosić, sindaco filoserbo di Sarajevo Est, contrario a qualsiasi indagine sui responsabili legati ai servizi segreti serbi.
Le ombre sui servizi italiani
Il sospetto più inquietante è che i servizi italiani sapessero. L’intelligence bosniaca avrebbe informato il Sismi, che però non avrebbe mai agito per fermare o denunciare la presenza dei nostri connazionali. Se confermata, questa omissione aprirebbe uno squarcio pesantissimo sul ruolo del nostro Paese durante il conflitto.
L’assedio e la memoria
Tra il 1992 e il 1996 l’assedio di Sarajevo è costato la vita a 11.541 civili, tra cui 1.601 bambini. La città, colpita per anni dai cecchini e dai bombardamenti, è diventata il simbolo del terrore quotidiano e dell’indifferenza internazionale. Oggi, trent’anni dopo, l’inchiesta riapre vecchie ferite e pone nuove domande: chi erano davvero quei “turisti della morte”? E quanti, in Italia, sapevano e hanno taciuto?
Finora nessuno è stato identificato o incriminato. Ma le testimonianze raccolte, i documenti dell’intelligence e il lavoro di giornalisti e magistrati potrebbero finalmente restituire un nome e una responsabilità a chi trasformò una guerra in un gioco letale.













