K metro 0 – Washington – Alla Casa Bianca, una scena che il Caucaso non vede da un secolo, i presidenti Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan che si stringono le mani, e Trump che sorride, dichiarando la conclusione di un accordo l’8 agosto che ferma l’emorragia di un lungo conflitto tra Armenia e Azerbaigian. L’accordo
K metro 0 – Washington – Alla Casa Bianca, una scena che il Caucaso non vede da un secolo, i presidenti Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan che si stringono le mani, e Trump che sorride, dichiarando la conclusione di un accordo l’8 agosto che ferma l’emorragia di un lungo conflitto tra Armenia e Azerbaigian.
L’accordo non si limita a fermare le ostilità, bensì apre le frontiere e costruisce relazioni diplomatiche e commerciali tra i due paesi. Ma non solo, apre agli Stati Uniti una via attraverso l’Armenia in direzione di Nakhchivan: con la diretta supervisione americana che da modo a Washington di mettere piede in una zona ricca di petrolio e gas. Questa nuova presenza degli Usa mette da parte Russia, Cina ed Iran.
Ankara, da tempo alleata strategica di Baku, vede nell’accordo armeno-azero, un’occasione d’oro per riaprire il confine con l’Armenia, chiuso dal 1993, e aumentare la propria influenza economica nella regione.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, mettono così un piede stabile in un’area dove finora erano stati comprimari. Come ha detto un funzionario americano: “Attraverso mezzi commerciali, questo passo sbloccherà la regione e scongiurerà nuove ostilità”.
La Turchia, che è l’alleato principale dell’Azerbaigian, ha salutato positivamente l’accordo, una mossa che le apre maggiormente le porte dell’energia e del commercio nel Vecchio Continente. Mentre Pashinyan promette di voltare pagina proponendo ufficialmente ai cittadini armeni un referendum popolare sulla rinuncia al Nagorno-Karabakh. Questa operazione consolida l’immagine di Trump come leader mondiale in grado di concludere accordi di pace duraturi. Nel frattempo Trump, con un sorriso astuto, dice ai due leader: se ci saranno altre tensioni, chiamatemi e metterò le cose a posto.
L’accordo di pace firmato a Washington l’8 agosto, con Donald Trump in prima fila, può quindi cambiare il volto del Caucaso. Il giorno dopo l’intesa, Teheran ha parlato di “serie preoccupazioni” per la crescente presenza di potenze straniere nella regione. L’accordo non si limita alla normalizzazione dei rapporti: prevede la creazione di un corridoio strategico nel sud dell’Armenia, che collegherà Baku con la sua exclave di Nakhchivan. Lo gestirà un consorzio privato americano per 99 anni, pur restando formalmente sotto sovranità armena.
Per l’Iran, quel tracciato è un problema serio: corre lungo il suo confine e potrebbe bloccare l’accesso al Mar Nero e all’Europa via Georgia. Secondo diversi analisti, è il passo decisivo per escludere Teheran dal “Corridoio di Mezzo”, la rotta commerciale tra Europa e Cina che evita sia l’Iran sia la Russia.
Le eventuali concessioni territoriali da parte dell’Armenia inoltre, potrebbero sfociare in un nuovo e grave conflitto nel Caucaso meridionale, con il rischio concreto per Erevan di perdere l’intera regione di Syunik. Lo ha dichiarato Bogdan Bezpalko, membro del Consiglio per le relazioni interetniche presso la presidenza della Federazione Russa, in un’intervista a “RT”.
Secondo Bezpalko, il cosiddetto “corridoio di Syunik” – che gli azerbaigiani chiamano “Corridoio di Zangezur” – che collegherebbe l’Azerbaigian alla regione autonoma di Nakhichevan, avrebbe effetti geopolitici rilevanti: “Separerebbe Armenia e Russia dall’Iran e potrebbe portare a una riformattazione complessiva del Caucaso meridionale, con il rischio di un grave conflitto futuro”, ha affermato l’esperto.
Bezpalko ha inoltre avvertito che la realizzazione del corridoio favorirà la penetrazione di turchi, Nato e statunitensi nella regione del Caspio, aprendo la strada a un’espansione dell’influenza della Nato nell’area. Secondo l’analista, questa prospettiva “non è più vantaggiosa né per l’Armenia né per la Russia”.
Mosca, che mantiene una base militare in Armenia ma è assorbita dal conflitto in Ucraina, non sembra in grado di fermare la mossa americana. Intanto, il premier armeno Nikol Pashinyan aggiusta la rotta proseguendo verso l’Occidente e, in prospettiva, verso l’Unione Europea.
Il progetto — battezzato “Trump Route for International Peace and Prosperity” — sarà lungo una trentina di chilometri e ospiterà strade, ferrovie, oleodotti, gasdotti e linee in fibra ottica. Per la Casa Bianca garantirà “collegamenti senza ostacoli” e ridurrà la possibilità di ricorrere alle armi.
Il presidente azero Ilham Aliyev vuole che l’Armenia intervenga su una base costituzionale per eliminare “pretese territoriali infondate” contro il suo Paese. Una modifica che, se messa a referendum nel 2027, rischia di dividere profondamente la politica interna armena.
Aliyev e la Turchia, però, hanno più da guadagnare che da perdere. L’accordo potrebbe aprire a una cooperazione militare più stretta tra Baku e Washington. “Abbiamo pre-firmato l’accordo nella capitale della superpotenza numero uno, nell’ufficio numero uno al mondo, davanti al grande presidente degli Stati Uniti — ha dichiarato Aliyev — e non ci saranno passi indietro”.
Resta irrisolta la questione dei prigionieri armeni detenuti in Azerbaigian, che Pashinyan ha portato all’attenzione di Trump. Baku, inoltre, insiste perché i due Paesi chiedano insieme all’OSCE lo scioglimento del Gruppo di Minsk, nato nel 1992 per mediare il conflitto nel Karabakh.
Sul nuovo equilibrio si muove anche l’Unione Europea, che negli ultimi anni ha rafforzato i legami con Erevan ma senza sbilanciarsi troppo. L’UE è presente con la missione civile EUMA, che monitora il confine con l’Azerbaigian; a settembre 2024 ha avviato il dialogo per la liberalizzazione dei visti e ha inviato fondi per la difesa e per gli sfollati del Karabakh. Eppure l’Armenia resta membro dell’Unione economica eurasiatica e mantiene rapporti economici solidi con Mosca. Pashinyan cerca di bilanciare, consolidando al tempo stesso rapporti più stretti al di fuori della diaspora armena, con Francia, India e altri partner. Intanto, l’Armenia ha intensificato i rapporti con Bruxelles.
Per decenni, la Russia è stata il garante — o, a seconda dei punti di vista, il controllore — della sicurezza nel Caucaso meridionale. Ma la guerra in Ucraina ha cambiato tutto.
Le truppe russe di peacekeeping in Karabakh sono state progressivamente ridotte, e Mosca non ha reagito in modo significativo alle offensive azere. A Erevan, questa passività è stata percepita come un tradimento.
La crisi interna: governo contro Chiesa
Sul fronte interno, il 25 giugno scorso il governo ha arrestato 14 persone accusate di preparare un colpo di Stato, tra cui l’arcivescovo Bagrat Galstanyan, volto noto dell’opposizione e leader del movimento Lotta Sacra. Il piano prevedeva di agire il 21 settembre, festa dell’indipendenza, e di coinvolgere rappresentanti russi in un incontro in un Paese terzo.
La rottura tra governo e Chiesa apostolica armena è ormai totale: dal pulpito si lanciano appelli espliciti a “cambiare potere”. Con le elezioni a poco più di un anno, la tensione politica è altissima.
Una diaspora radicata e influente nel Medio Oriente
Le comunità armene in Libano, Siria, Egitto, Giordania e, più di recente, negli Emirati Arabi Uniti e in Qatar, sono tra le più organizzate e influenti al di fuori del Paese.
In Libano, gli armeni sono parte integrante del tessuto politico e sociale, con propri partiti, scuole e giornali. In Siria, fino alla guerra civile, Aleppo era considerata una delle capitali culturali della diaspora. In Egitto, la presenza armena risale all’Ottocento e si è intrecciata con il commercio e le professioni liberali.
Queste comunità, oltre a preservare lingua e tradizioni, possono essere un ponte per investimenti e scambi, specialmente nei Paesi del Golfo dove, negli ultimi decenni, molti armeni si sono trasferiti per lavoro.
L’apertura al mondo arabo: una strategia di sopravvivenza economica
Armenia e mondo arabo: un ponte antico che può tornare strategico
Negli ultimi mesi, a Erevan si è aperto un dibattito che fino a poco tempo fa sembrava marginale: come ampliare i rapporti con il Medio Oriente, in particolare con i Paesi arabi, per bilanciare le tensioni con Washington e Bruxelles e ridurre la dipendenza da Mosca.
L’idea affonda le radici in una storia secolare. Pur trovandosi nel Caucaso, l’Armenia ha intrattenuto intensi scambi con il mondo arabo grazie alle rotte commerciali, alle migrazioni e, soprattutto, alla vasta diaspora che ha messo radici in diversi Paesi della regione.
Perché il momento è propizio
L’economista Tatul Manaseryan ha messo in guardia: i nuovi dazi statunitensi del 10% sulle merci armene, previsti dal 5 aprile scorso, rischiano di penalizzare un’economia già fragile. Le esportazioni verso gli USA non sono enormi — circa 58,9 milioni di dollari nel 2024, secondo Armstat — ma la lezione è chiara: diversificare i mercati non è più un’opzione, ma una necessità.
Il Medio Oriente offre diversi vantaggi:
mercati ad alto potere d’acquisto, soprattutto nel Golfo;
domanda in crescita di prodotti di nicchia e di alta qualità, dove l’Armenia può distinguersi;
interesse per investimenti infrastrutturali e tecnologici, ambiti in cui Erevan cerca partner alternativi a Mosca. Arabia Saudita, Emirati e Qatar stanno investendo in energie rinnovabili e progetti infrastrutturali in diversi Paesi. L’Armenia, con il suo potenziale idroelettrico e le aree adatte all’eolico, può inserirsi in progetti congiunti, offrendo anche manodopera qualificata.
Trasformare queste opportunità in realtà richiede passi concreti: accordi bilaterali di libero scambio, oggi assenti con la maggior parte dei Paesi arabi; missioni economiche mirate nei Paesi del Golfo per attrarre investitori; agevolazioni sui visti per imprenditori e turisti arabi; hub logistici che sfruttino la posizione dell’Armenia come porta verso Russia e Asia centrale. In un momento in cui la Russia è penalizzata dal conflitto in corso e l’Occidente non sempre offre certezze, i canali con i Paesi arabi possono dare a Erevan margini di manovra preziosi.
Alcuni Paesi arabi hanno rapporti stretti con la Turchia o con l’Azerbaigian, altri con l’Iran. L’Armenia dovrà muoversi con cautela, evitando di essere percepita come parte di un blocco ostile. In Giordania, la cooperazione culturale e universitaria è cresciuta senza generare tensioni; negli Emirati, la politica estera pragmatica di Abu Dhabi permette di sviluppare rapporti anche in presenza di legami con Baku.
Insomma, i “miracoli dei politici” per giungere alla Pace passano dalla Casa Bianca: Pashinyan, leader di un paese in maggioranza cristiano, rompe la storica alleanza con la Chiesa armena, e mette da parte il potere ecclesiastico scegliendo la diplomazia economica, puntando anche sul mondo islamico; mentre Aliyev, leader di un paese in maggioranza musulmano, che uscito vincente dalla guerra, si è affidato alla mediazione delle potenti lobbies per concludere un vantaggioso accordo di pace.