K metro 0 – Parigi – C’è una legge che, da sola, è riuscita a riaccendere vecchie tensioni nel mondo agricolo francese. Si chiama legge Duplomb, è stata adottata definitivamente l’8 luglio e prende il nome dal senatore repubblicano Laurent Duplomb, ex presidente della Camera dell’Agricoltura dell’Alta Loira. Secondo chi l’ha voluta, serve a “liberare
K metro 0 – Parigi – C’è una legge che, da sola, è riuscita a riaccendere vecchie tensioni nel mondo agricolo francese. Si chiama legge Duplomb, è stata adottata definitivamente l’8 luglio e prende il nome dal senatore repubblicano Laurent Duplomb, ex presidente della Camera dell’Agricoltura dell’Alta Loira. Secondo chi l’ha voluta, serve a “liberare l’agricoltura dai vincoli che la soffocano”. Per altri, è invece il segnale di un ritorno a un’agricoltura intensiva, dannosa per l’ambiente e la salute pubblica.
Nel mirino, innanzitutto, c’è il ritorno dell’acetamiprid, un pesticida vietato in Francia dal 2018 e classificato tra i neonicotinoidi, accusati di avere effetti devastanti sugli insetti impollinatori come le api. Ma la legge non si ferma qui: facilita anche la creazione o l’espansione degli allevamenti intensivi e autorizza nuovi bacini per lo stoccaggio dell’acqua destinata all’irrigazione. Un pacchetto che ha immediatamente spaccato il Paese e messo a confronto due visioni opposte dell’agricoltura.
Secondo Duplomb, intervistato da Franceinfo, la legge è una risposta concreta alla crisi che vivono molti agricoltori. “La realtà di ciò che chiede l’ecologia è la fine dell’agricoltura francese. Meno produciamo, più dovremo importare da Paesi con standard inferiori”, ha detto. Parole che riecheggiano quelle del presidente della FNSEA, Arnaud Rousseau, che su LinkedIn ha parlato di una “visione restrittiva dell’ecologia che sacrifica gli agricoltori sull’altare dell’ideologia”.
Per la FNSEA e il gruppo Jeunes Agriculteurs, si tratta quindi di un testo indispensabile per ridare slancio al sistema produttivo nazionale. Le richieste contenute nella legge corrispondono, in larga parte, a battaglie storiche del sindacato, da sempre contrario a una riduzione forzata dell’uso dei fitofarmaci e a favore di una visione più “pragmatica” dell’ecologia applicata all’agricoltura.
Ma dall’altra parte si è alzata una mobilitazione ampia. Una petizione per chiedere al presidente Macron di non promulgarla ha raccolto, in pochi giorni, quasi due milioni di firme. Le critiche arrivano da sindacati alternativi come la Confédération paysanne, dalla rete CIVAM, da Terre de Liens e da associazioni ambientaliste come Générations Futures. Tutti denunciano lo stesso pericolo: la promozione di un modello agricolo produttivista, vecchio e dannoso, che guarda solo alla resa immediata e non alla sostenibilità.
Questa legge, sostengono gli oppositori, rischia di accentuare il divario tra le aziende agricole che cercano di innovare attraverso l’agroecologia e quelle che continuano a puntare su pesticidi e allevamenti intensivi. “È una legge che premia una minoranza: chi ha aziende grandi, meccanizzate e orientate all’export”, commenta il biologo Vincent Bretagnolle, ricercatore al CNRS, che da oltre trent’anni sperimenta sul campo pratiche agroecologiche nella regione del Centre-Ouest.
L’elenco delle alternative esiste già: rotazione delle colture, consociazioni, siepi, agro-forestazione, pascoli nei frutteti, controllo biologico dei parassiti, uso ridotto di fertilizzanti e farmaci veterinari. Secondo l’INRAE (l’Istituto Nazionale di Ricerca per l’Agricoltura, l’Alimentazione e l’Ambiente), questi sistemi aiutano a rigenerare i suoli, migliorano la qualità dell’acqua, aumentano la cattura del carbonio e riducono i costi. “Funziona. E non danneggia le rese, se non in modo marginale”, dice Bretagnolle.
Oggi in Francia ci sono più di 60.000 aziende agricole biologiche e quasi 40.000 certificate ad alto valore ambientale, secondo il Ministero dell’Agricoltura. Ma sono ancora una minoranza. Circa il 90% degli agricoltori pratica un’agricoltura intensiva, centrata su seminativi, grandi superfici, meccanizzazione spinta e uso sistematico di pesticidi. Secondo l’INSEE, nel 2020 la superficie media di un’azienda agricola era di 69 ettari, contro i 55 di dieci anni prima. E un quarto delle aziende controlla il 68% dei terreni coltivati in Francia.
Il problema, secondo i ricercatori, è che questo modello non è sostenibile. Ha già causato un forte degrado ambientale: scomparsa del 70% delle siepi dal 1950, riduzione dell’11% dei pascoli dal 1990, crollo del 36% della popolazione di uccelli nelle campagne dal 1989. E la crisi climatica rischia di accelerare il collasso. Il rapporto IPCC avverte che entro il 2050 il 10% delle terre agricole del pianeta potrebbe non essere più coltivabile. Entro il 2100, nello scenario peggiore, si supererà il 30%.
Gli agricoltori sono già in difficoltà: rese più basse, raccolti anticipati, terre impoverite, malattie nuove che colpiscono il bestiame. “Non ci sarà produzione se perdiamo gli ecosistemi”, ribadisce Bretagnolle. E anche il direttore scientifico dell’INRAE, Christian Huyghe, è chiaro: “L’adattamento al cambiamento climatico passa per una diffusione ampia dell’agroecologia. Non è una scelta ideologica, ma una necessità concreta”.
Nel frattempo, la legge Duplomb ha fatto emergere un dato politico di fondo: l’agricoltura non è più solo un settore produttivo, ma il campo di battaglia tra due visioni inconciliabili. Da una parte, chi vuole tenere il passo con il mercato globale, anche a costo di spingere su chimica e allevamenti intensivi. Dall’altra, chi la immagina più integrata nella natura, capace di produrre e proteggere al contempo.
Il dibattito è tutt’altro che chiuso. E mentre le polemiche vanno avanti, resta una domanda sospesa: per quanto tempo ancora il vecchio modello potrà reggere, prima che sia la natura — e non la politica — a imporre il cambiamento?