K metro 0 – Washington – E alla fine Elon Musk e Donald Trump hanno litigato davvero. Sono passati appena tre mesi dall’insediamento del tycoon alla Casa Bianca (era il 20 gennaio scorso) e l’altro tycoon del nuovo governo ha sbattuto la porta lasciando il suo incarico di superconsulente per l’efficienza governativa. Troppi miliardi (140
K metro 0 – Washington – E alla fine Elon Musk e Donald Trump hanno litigato davvero. Sono passati appena tre mesi dall’insediamento del tycoon alla Casa Bianca (era il 20 gennaio scorso) e l’altro tycoon del nuovo governo ha sbattuto la porta lasciando il suo incarico di superconsulente per l’efficienza governativa. Troppi miliardi (140 si dice) persi per la politica economica di Trump che, con i dazi alla Cina e non solo, ha fatto precipitare le azioni della Tesla – uno dei tanti business di quello che sembrava il suo più fidato consigliere – e ha colpito, con il crollo della Borsa, anche le altre attività dell’uomo più ricco del pianeta. Se lo slogan politico “Make America Great Again” (l’acronimo MAGA è ormai diventato il simbolo del nuovo corso trumpiano) deve significare la rovina degli interessi economici di Elon Musk, il divorzio era inevitabile.
Era stato anche previsto almeno da uno dei giornalisti più autorevoli nel campo minato dell’economia: Bill Emmot, britannico, già corrispondente da Tokyo dell’Economist e poi, per 13 anni direttore di quel settimanale (dal 1993 al 2006) che, tra l’altro, aveva anche una passione per le vicende politiche italiane nell’era Berlusconi. Per uno di quegli incroci di carriere che il destino riserva ai giornalisti corrispondenti dall’estero, l’ho conosciuto anni fa e da allora leggo sempre i suoi editoriali e mi fido di quello che scrive. Così, già nel dicembre dello scorso anno abbiamo pubblicato sull’edizione cartacea di Kmetro0 un articolo dal titolo “E se Donald Trump e Elon Musk finissero per litigare?”
Quando ho cominciato a fare il giornalista mi hanno sempre messo in guardia dallo scrivere “io ve lo avevo detto”. Una regola sulla quale concordo in pieno. Se ho avuto un merito è stato soltanto quello di segnalare l’articolo di un collega esperto in materia. Aveva scritto Bill Emmott: “I due uomini più potenti degli Stati Uniti – Donald Trump ed Elon Musk – la coppia che sembra avere unito i propri destini in un abbraccio sincero e duraturo, sono in realtà due miliardari destinati a litigare e a divorarsi. Troppo uguali e troppo diversi”. Una strana coppia unita da interessi che sembravano simili e che, per gli stessi interessi, si è divisa.
Elon Musk aveva già annunciato ieri davanti al consiglio di amministrazione di Tesla che “sarebbe tornato a curare personalmente gli affari dell’azienda”. Ora ha formalizzato la sua decisione. Trump non ancora fatto dichiarazioni pubbliche. Che ci saranno di sicuro: è soltanto questione di tempo. Ma, secondo i rumors che girano a Washington, ha già deciso come rimpiazzare Musk. L’efficienza governativa passerà nelle mani di Russel Vought, personaggio non molto noto fuori dagli Usa ma da anni vero ideologo di Donald Trump. Una figura anche somaticamente opposta a quella di Elon Musk. Niente cappellini, niente mosse ad effetto. Occhiali, barba e baffi grigi, sempre in giacca e cravatta, Russel nella prima amministrazione Trump era direttore dell’Ufficio per la Gestione del Bilancio. Ma è anche una delle menti della nuova amministrazione.
E’ l’ideologo-chiave del “Project 2025” che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca e suggeriva e teleguidava le iniziative che Elon Musk presentava con enfasi e grande cura scenica. Dietro le quinte, Vougth aveva già di fatto sostituito Musk nella regia della riorganizzazione governativa. Tra i suoi “suggerimenti” più significativi la chiusura dell’Us-Aid, l’Agenzia per lo sviluppo Internazionale, e del Consumers financial protection Bureau (CFPB) che era stato creato dopo la grande crisi del 2008 per tutelare i consumatori. Ex funzionario e analista politico conservatore, Russel Vought ha anche fondato il Center for Renewing America, un’organizzazione che, come lui stesso ha detto, “promuove una visione cristiana nazionalista” dell’amministrazione della cosa pubblica.