WWF: meno 73 per cento di animali selvatici in 50 anni

WWF: meno 73 per cento di animali selvatici in 50 anni

K metro 0 – Gland – Nell’attesa di COP16 in Colombia, prevista per fine ottobre, quando i leader mondiali si riuniranno per la 16a Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica, il WWF chiede “un cambiamento di rotta: Anche se il tempo sta per scadere, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno”.

K metro 0 – Gland – Nell’attesa di COP16 in Colombia, prevista per fine ottobre, quando i leader mondiali si riuniranno per la 16a Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica, il WWF chiede “un cambiamento di rotta: Anche se il tempo sta per scadere, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno”. Insomma, aggiunge: “Non esageriamo quando diciamo che ciò che accadrà nei prossimi cinque anni determinerà il futuro della vita sulla Terra”.

L’allarme e l’invito al cambiamento arrivano dall’ultima pubblicazione biennale del rapporto Living Planet, edito giovedì 10 ottobre da World Wildlife Fund (WWF), che parla di “un pianeta in pericolo”. E suffraga il tutto con dati inequivocabili: la dimensione media delle popolazioni di animali selvatici monitorate – pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili – è diminuita del 73% dagli anni ’70; e attribuisce la colpa alla “pressione incessante” di una “doppia crisi”: il cambiamento climatico e il collasso degli ecosistemi.

Con il suo Living Planet Index (LPI), il WWF segue quasi 35.000 popolazioni animali appartenenti a 5.495 specie in tutto il mondo. Ogni due anni, essa confronta il numero di individui con la sua cifra di riferimento ed elabora “tendenze che rivelano lo stato di funzionamento degli ecosistemi”, spiega il rapporto. Tuttavia, alla luce dei dati più recenti, risalenti al 2020, “la tendenza è confermata”, afferma Yann Laurans, direttore dei programmi della sezione francese del WWF. “La pesca è ancora eccessiva, la deforestazione non si ferma, le sovvenzioni dannose per la natura sono ancora presenti…”.

In America Latina e nei Caraibi le popolazioni monitorate subiscono il crollo più radicale (-95%). Cacciato, catturato nelle reti ed esposto ai capricci del clima, ad esempio, il delfino rosa dell’Amazzonia in Brasile, è diminuito del 65% tra il 1994 e il 2016. Mentre l’Africa ha visto il suo LPI ridursi del 76% in 50 anni e l’Asia e il Pacifico del 60%, l’Europa e l’Asia centrale, così come il Nord America (con un calo rispettivamente del 35% e del 39%), stanno mostrando segni di miglior salute.

In Europa, invece, i pesci d’acqua dolce (insieme a rettili e anfibi) sono il gruppo di specie più minacciato, a causa della modifica dell’habitat, eccessivo sfruttamento, inquinamento e cambiamenti climatici. Le popolazioni di specie d’acqua dolce sono diminuite di più su scala globale (-85%), seguite dalle popolazioni di specie terrestri (69%) e marine (56%).

Nel suo rapporto, il WWF mette pertanto in guardia in particolare dai “punti critici”. Che si verificano quando, raggiunta una certa soglia di degrado in un ecosistema, “il cambiamento si auto-perpetua, causando notevoli sconvolgimenti, spesso brutali e potenzialmente irreversibili”. La Grande barriera corallina australiana, minacciata dall’aumento della temperatura degli oceani, è un caso eclatante. La sua popolazione di tartarughe embricate, una specie cruciale che si nutre di spugne, contribuisce a mantenere questa struttura unica. Tuttavia, potrebbe estinguersi già nel 2036, avverte l’ONG, che sottolinea i preziosi servizi forniti dai coralli: in tutto il mondo, “circa 330 milioni di persone dipendono direttamente dalla barriera corallina per la protezione dalle tempeste, per l’approvvigionamento alimentare e altri mezzi di sussistenza e per i suoi benefici”, sottolinea il WWF.

Allo stesso modo, se la foresta amazzonica dovesse raggiungere il suo punto di svolta, “l’impatto non sarebbe solo devastante per le comunità locali, ma anche per il clima e l’approvvigionamento alimentare mondiale, con ripercussioni sulle società e sulle economie di ogni angolo del pianeta”, avverte l’ONG.

Di fronte a questa situazione, Véronique Andrieux, citata nel rapporto, chiede “un’azione massiccia e immediata per proteggere ciò che può ancora essere protetto e ripristinare ciò che è già stato danneggiato”. Ripristinare le zone umide, reintrodurre le specie, creare aree protette gestite dalle popolazioni autoctone… Le soluzioni esistono.

In Europa, ne hanno beneficiato il bisonte e il pellicano riccio, si legge nel rapporto. Nella Repubblica Democratica del Congo, una popolazione di gorilla monitorata dall’ONG ha visto poi il suo numero aumentare del 3% all’anno tra il 2010 e il 2016 grazie agli sforzi della popolazione locale.

Ma le aree protette hanno avuto un successo variabile e al momento coprono solo il 16% delle terre emerse e l’8% degli oceani, a fronte di un obiettivo del 30% degli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030, secondo il Quadro Globale per la Biodiversità (Global Biodiversity Framework – GFB) di Kunming-Montreal adottato nel 2022.

La lotta alle emissioni di gas serra non può essere condotta a spese della protezione della biodiversità, insiste il rapporto, che sfida il mondo ad “affrontare simultaneamente i fattori che determinano il cambiamento climatico e la perdita di natura trasformando i nostri sistemi energetici, alimentari e finanziari in modo coordinato”. La protezione della biodiversità e degli ecosistemi può in sostanza contribuire a mitigare il cambiamento climatico preservando i pozzi di carbonio come le foreste e le zone umide.

 

di Sandro Doria

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