Alle origini del moderno umanitarismo: il ruolo della stampa

Alle origini del moderno umanitarismo: il ruolo della stampa

K metro 0 – Amsterdam – Come si fa a richiamare l’attenzione sulle sofferenze di popoli lontani? A muovere a compassione chi altrimenti resterebbe indifferente? E’ l’argomento  del recente libro di David de Boer (The Early Modern Dutch Press in an Age of Religious Persecution. The Making of Humanitarianism, Oxford Univ, Press) docente alla Radboud

K metro 0 – Amsterdam – Come si fa a richiamare l’attenzione sulle sofferenze di popoli lontani? A muovere a compassione chi altrimenti resterebbe indifferente? E’ l’argomento  del recente libro di David de Boer (The Early Modern Dutch Press in an Age of Religious Persecution. The Making of Humanitarianism, Oxford Univ, Press) docente alla Radboud Universiteit, di Nimega, in Olanda.

Per i perseguitati in tutto il mondo, attirare l’attenzione dei media internazionali è spesso una questione di vita o di morte. Lo studio di de Boer ci riporta alla rivoluzione della stampa in Europa nel XVII secolo, quando le minoranze oppresse trovarono in questo moderno mezzo di comunicazione un potente alleato per denunciare maltrattamenti, condanne a morte e massacri di ispirazione religiosa, gettando così le basi dell’umanitarismo moderno in Europa.

L’Olanda culla della libertà di stampa 

Man mano che il consumo di notizie  divenne una pratica quotidiana per molti europei, la Repubblica olandese emerse come un centro internazionale di protesta a mezzo stampa contro la violenza religiosa. Pensando all’Olanda, del resto, quasi immediatamente evochiamo l’immagine di una società tollerante, che da secoli è orgogliosa della propria tradizione di libertà di stampa:  ricordiamo che la grande fortuna degli stampatori-editori olandesi, come gli Elzevier e gli Jansson, a partire dal XVII secolo è proprio dovuta alla libertà che era loro concessa di stampare pubblicazioni che altrove sarebbero incappate nei divieti della censura, religiosa o politica.

Esaminando le prime strategie pubblicitarie moderne, de Boer approfondisce la nostra comprensione di come minoranze oppresse  cercarono di scrollarsi di dosso lo spettro di questa violenza che le aveva  perseguitate per generazioni e di creare società più tolleranti, governate dallo stato di diritto, dalla ragione e da un senso di comune umanità.

Far leva sull’indignazione

Suscitando l’indignazione pubblica, richiamando i governanti e facendo pressioni per ottenere solidarietà, attraverso opuscoli, periodici e giornali, i produttori  di opinioni potevano esercitare una profonda influenza sulle relazioni internazionali.

Ma in un contesto politico tempestoso, segnato da tensioni religiose, alleanze instabili e guerre incessanti, il modo più sicuro e di più ampia portata per ottenere sostegno era quello di evidenziare la propria sofferenza senza alienarsi le simpatie di altri gruppi religiosi.

Le società europee hanno sviluppato per la prima volta una propensione alla solidarietà verso popoli lontani dopo la Riforma, un periodo di estrema polarizzazione religiosa principalmente tra cattolici e protestanti. Per combattere questa frammentazione, molti Stati hanno perseguitato violentemente i dissidenti religiosi, provocando il dislocamento di centinaia di migliaia di protestanti, cattolici, anabattisti, ebrei e musulmani.

Secoli prima della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati (del 1951), questi sfollati non avevano quasi nessun diritto. Per sopravvivere dipendevano dalla carità e dall’ospitalità di correligionari  in altre parti d’Europa.

Le minoranze sradicate spesso inviavano delegati con testimonianze scritte per sensibilizzare i potenziali alleati sulla loro difficile situazione. Inizialmente, queste pressioni per ottenere sostegno facevano leva sugli antagonismi confessionali esistenti per chiamare a raccolta i compagni di fede. I rifugiati tendevano quindi a mescolare le loro storie di violenza con la retorica religiosa militante.

Queste tendenze cambiarono gradualmente con l’avvento dei mezzi di informazione nel XVII secolo. Il ricorso alla stampa obbligò i rifugiati a rivedere le proprie strategie, poiché dovevano tenere in maggiore attenzione il pubblico diversificato che avrebbero inevitabilmente raggiunto.

Le minoranze vittime di abusi e i loro sostenitori hanno così evitato sempre più di prospettare le loro difficoltà radicalizzando i contrasti religiosi. E hanno  adottato invece una retorica che induce alla compassione, facendo appello allo Stato di diritto e a un senso di umanità condivisa.

Questa strategia di comunicazione avrebbe infine consentito all’impegno umanitario di trascendere le divisioni religiose da cui era emerso.

La nostra comune umanità

Alcune di queste campagne pubblicitarie hanno avuto ampi  effetti politici. Prendiamo ad esempio i valdesi, una minoranza protestante della Savoia che subì un massacro nel 1655 per mano del loro sovrano, il duca di Savoia. Dopo la strage – che provocò la morte di circa duemila uomini, donne e bambini – i sopravvissuti fuggirono in Francia e raccolsero le testimonianze oculari, che riuscirono a pubblicare e distribuire con l’aiuto dell’ambasciatore olandese a Parigi.

I valdesi fornirono resoconti spaventosamente dettagliati di stupri, torture e infanticidi e insistettero sul fatto che solo  persone che avevano “abbandonato ogni sentimento di umanità” potevano “sopportare questo senza tremare”. La loro storia ebbe forti ripercussioni in tutta Europa e mobilitò con successo le principali potenze protestanti. La Repubblica olandese, il Commonwealth inglese e i cantoni riformati svizzeri organizzarono campagne di beneficenza su larga scala per aiutare i sopravvissuti, indirizzarono lettere di protesta al Duca di Savoia e inviarono incaricati speciali a Torino per mediare un accordo di pace (cfr. Teodoro Balma, Il martirio di un popolo. I valdesi, Milano, Edizioni Corbaccio, 1933, N.d.R).

Allora come oggi, la compassione poteva anche tramutarsi nell’intolleranza. Alcuni protestanti olandesi videro quelle stragi come una prova della fondamentale disumanità dei cattolici e le presero a pretesto per proporre una legislazione anticattolica.

Mettendo in primo piano la sofferenza umana (piuttosto che quella religiosa), i valdesi riuscirono a portare le persone dalla loro parte e a mantenere un vitale sostegno interreligioso. La Francia cattolica, in particolare, offrì loro asilo e servì da mediatore durante i colloqui di pace. Inoltre, questa strategia spinse i governi persecutori a rispondere: le autorità sabaude rilasciarono a malincuore una dichiarazione pubblica in cui negavano il massacro, riconoscendo così, implicitamente, l’opinione pubblica straniera come arbitro morale.

Nuovi alleati

Facendo appello al comune senso di umanità attraverso la stampa, le vittime della violenza non hanno abbattuto del tutto i muri religiosi che separano le reti di solidarietà, ma certamente hanno prodotto delle crepe.

Nel 1745 la comunità ebraica di Praga riuscì a suscitare una profonda indignazione internazionale denunciando la propria espulsione ad opera della regina Maria Teresa. “Da quel giorno – leggiamo in un  documento degli ebrei di Praga ritrovato recentemente dal collezionista Gianfranco Moscati e affidato al Museo  dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (cfr. “Pagine ebraiche”, n. 12, dicembre  2011, p. 36) – noi andiamo raminghi e non sappiamo quale sia il nostro asilo. E che faremo delle donne, dei bambini, dei vecchi ammalati e di tutta la gioia della nostra vita: i libri della Torah, i templi, le scuole, i cimiteri? Non abbiamo  scampo!  (…) Esiste un male maggiore al nostro, un dolore più grande?”)

La sovrana venne così investita da un’ondata di proteste da parte di istituzioni e autorità straniere, tra cui il sultano ottomano, il papa, il senato veneziano, i re di Gran Bretagna, Danimarca e Polonia, nonché le corporazioni mercantili di Londra, Amsterdam e Amburgo, che la esortarono, a dar prova di  virtù di “umanità, compassione, amore per il prossimo, ovunque sia”.   

Il silenzio della stampa

Oggi tutto si muove più velocemente, poiché gran parte del clamore per richiamare l’attenzione internazionale si è spostato online: giornalisti palestinesi come Motaz Azaiza e Bisan Owda hanno raccolto milioni di followers sui social media, svolgendo un ruolo decisivo nel mantenere sotto gli occhi del mondo la crisi umanitaria in corso a Gaza e nel  fornire prove decisive contro qualsiasi tentativo di insabbiare crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Anche se di per sé l’attenzione dell’opinione pubblica non può risolvere una crisi, può tuttavia essere determinante per evidenziare, contrastare e prevenire le atrocità. Come già avevano capito i primi europei moderni, la violenza di massa prospera nel silenzio della stampa.

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