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India, studentesse musulmane in rivolta contro l’esclusione dalle scuole per il velo

K metro 0 – New Delhi – La protesta è cominciata nello Stato meridionale del Karnataka. Martedì scorso, Muskan Khan, una giovane 19enne musulmana, stava cercando di entrare nel college femminile dove studia sfidando il divieto di indossare il velo decretato dal ministero dell’Istruzione di questo Stato indiano. Quello che è successo dopo è stato

K metro 0 – New Delhi – La protesta è cominciata nello Stato meridionale del Karnataka. Martedì scorso, Muskan Khan, una giovane 19enne musulmana, stava cercando di entrare nel college femminile dove studia sfidando il divieto di indossare il velo decretato dal ministero dell’Istruzione di questo Stato indiano.

Quello che è successo dopo è stato catturato in un video diventato subito virale sui social e poi rilanciato dalla BBC britannica, che ha trasformato Muskaan nel simbolo delle proteste e delle manifestazioni dei giovani delle minoranze indiane che vedono negati i diritti fondamentali.

Vestita con un burqa, Muskaan è stata circondata da una folla di giovani urlanti che indossavano scialli color zafferano e sventolavano bandiere arancioni, i colori dei gruppi nazionalisti estremisti indù che prosperano da quando il Bharatiya Janata Party (BJP) del premier indiano Narendra Modi è salito al potere nel 2014.

Le proteste contro il divieto del velo islamico si sono diffuse in tutte le scuole e i college del Karnataka, uno Stato governato dal BJP. Seguite da contro-proteste di manifestanti induisti, con un amento delle tensioni in tutto lo Stato, che hanno indotto il governo del Karnataka a chiudere scuole e college per tre giorni questa settimana nel tentativo di riportare la calma.

Una causa è stata intentata in tribunale da una delle studentesse, che nella sua petizione ha affermato che indossare il velo sia un diritto garantito dalla costituzione indiana.

La controversia sul velo ha coinvolto Malala Yousafzai, la vincitrice del Premio Nobel per la pace sopravvissuta a un attacco talebano nel 2012 nel suo paese natale, il Pakistan, per aver fatto una campagna per l’istruzione delle ragazze.

“Rifiutare alle ragazze il diritto di andare a scuola con l’hijab è orribile”, ha twittato Yousafzai. “I leader indiani devono fermare l’emarginazione delle donne musulmane”, costrette a scegliere tra gli studi e l’hijab.

Le proteste per l’hijab arrivano quando lo stato più popoloso dell’India, l’Uttar Pradesh, inizia un’elezione di quasi un mese (i risultati si sapranno solo il 10 marzo) considerata un test per il governo Modi, in vista delle elezioni nazionali del 2024.

Il candidato alla rielezione dell’Uttar Pradesh, è il monaco induista e ultranazionalista Yogi Adityanath, vicino a Modi.

Una forte vittoria lo metterebbe in pole position per succedere a Modi come primo ministro: una prospettiva inquietante per gli oltre 200 milioni di musulmani dell’India.

Durante la campagna elettorale, il monaco ha dichiarato esplicitamente che le consultazioni politiche erano una lotta tra “l’80% e il 20%”, riferendosi alla divisione demografica dello Stato sulla religione (80% di induisti, 20% di musulmani).

Le divisioni tra la maggioranza indù dell’India e le minoranze musulmane (circa il 14% degli 1,4 miliardi di abitanti del paese), si sono allargate e questo sta mettendo a dura prova la democrazia pluralista dell’India.

Dietro a questa ondata antislamica c’è il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un’organizzazione paramilitare bandita già tre volte dal 1947 agli anni ’90. Fondata nel 1925 sulle orme di Mussolini, Hitler e dell’estrema destra europea degli anni ’20, considera suoi nemici tutti coloro che non rispecchiano il profilo dell’indiano puro e che “sporcano la razza indiana”, ovvero i musulmani. Con i suoi 7 milioni di iscritti, in campagna elettorale mobilita oltre 100 milioni di volontari.

Jawaharlal Nehru, il fondatore della repubblica indiana, li definì “una milizia privata che agisce secondo principi prettamente nazisti”. Dalle fila dell’RSS proviene il 75% dei ministri degli ultimi due governi nazionali. Il premier Modi è stato un militante Rss dall’età di otto anni, ed è stato pracharak (predicatore) per anni. Gli avversari dell’RSS sono, in primis, i musulmani e poi i cristiani, gli intellettuali e i giornalisti critici. I militanti dell’RSS sostengono le organizzazioni che linciano musulmani e Dalit (gli intoccabili), accusati di macellare vacche.

Dal 2014 a oggi, in 82 attacchi sono stati uccisi 43 indiani, e feriti 108, perché accusati di trasportare carne di vacca. La maggior parte erano musulmani. Ma sono stati uccisi anche scrittori laici e picchiati studenti universitari della Jawaharlal Nehru University.

L’RSS ora chiede di erigere più statue a Nathuram Godse, assassino del Mahatma Gandhi, e di costruire più templi per riabilitare come patriota questo suo ex militante.

Braccio intellettuale del Bjp (il partito del premier Modi) influenzano i programmi del governo di Nuova Delhi e infiltrano i ministeri più utili alla riscrittura della storia in chiave indù.

La religione, insomma, è usata per raccogliere voti. Ma è più che un espediente elettorale. Il Bjp sta raccogliendo consensi “per spingere al muro la comunità musulmana” ha dichiarato, in un’intervista rilasciata a Leela Jacinto di France 24, Noorjehan Safia Niaz, cofondatrice del gruppo di donne musulmane, il Bharatiya Muslim Mahila Andolan. “Hanno scelto di demonizzare un’intera comunità come parte dell’agenda del regime per convertire l’India in un paese basato sulla religione”, ha aggiunto.

IL BJP ha utilizzato a lungo il populismo islamofobo come strategia per la campagna elettorale, usando i simboli per potenziare la sua base indù di destra. Fra questi, siti religiosi contesi, come una moschea del XVI secolo ad Ayodhya, nell’Uttar Pradesh, demolita da una folla indù nel 1992 poiché alcuni induisti credono che fosse il luogo di nascita del dio Rama.

La religione torna particolarmente utile per il partito al governo in questo momento per nascondere la crisi economica e sanitaria dovuta alla pandemia, con l’aumento della disoccupazione e dell’inflazione che ha scatenato proteste in alcune parti del paese.

La gestione disastrosa dell’ondata della variante Delta dell’anno scorso, che ha portato il sistema sanitario del paese vicino al collasso a causa dell’esaurimento dell’ossigeno negli ospedali, è un altro problema che il BJP preferirebbe che l’elettorato semplicemente dimenticasse.

La controversia sull’hijab ha avuto un impatto sull’istruzione, un settore particolarmente colpito, ha detto Niaz. “L’istruzione ha subito il peso maggiore di questa pandemia”, ha spiegato, riferendosi alla chiusura delle scuole e all’abbandono scolastico a causa della crisi. “Le scuole e i college sono luoghi per ottenere un’istruzione, non per affermare un’identità comunitaria, discriminare o escludere. L’isolamento delle ragazze musulmane deve cessare immediatamente e deve essere loro consentito di esercitare il diritto all’istruzione senza impedimenti”.

Gli attivisti per i diritti delle donne sono preoccupati per la strumentalizzazione della questione del velo in India, un paese costituzionalmente multireligioso.

I codici di abbigliamento comunitari sono tollerati nella società indiana e non costituiscono una barriera all’ingresso nelle istituzioni pubbliche. Le donne indù conservatrici in alcune parti dell’India usano ancora il ghungat, o velo, per coprirsi i capelli, per esempio. Altre minoranze, come i sikh, continuano a prestare servizio nell’esercito indiano con turbanti religiosi.

In quanto donna musulmana, Niaz è costernata dagli effetti delle politiche maggioritarie del BJP sulla sua comunità. “Sono una donna musulmana e non ho mai indossato l’hijab, mia madre non l’ha mai indossato, mia nonna non l’ha mai indossato”. “Ma capisco anche la libertà di scelta, di vestirsi come si preferisce”, ha aggiunto.

Niaz crede che ci sia bisogno di una discussione su questi temi all’interno della comunità. “Sono meno musulmana perché non indosso l’hijab? Questo è un dibattito che deve avvenire, ma all’interno della comunità. Il problema è che quando ci si trova di fronte a un regime così fascista, non vogliamo discuterne. Quindi dobbiamo opporci collettivamente a questo regime, e così l’identità viene fuori con più forza – e questo non è salutare”, ha detto.

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